Metafore e immagini dell'«inizio»

Un insolito percorso rabdomantico

di Luca Calabrò

Creacion de Adamo

«Creazione del primo uomo», Michelangelo (foto 4)

Inizio-prima dell’inizio-dopo l’inizio, passaggio, nuovo, primo, inizio-fine, tempo. In questa catena di nessi si palesa parte, certo minima, delle plurime implicazioni implicite nell’idea di inizio.

Come affrontare questo ambito? Inevitabilmente seguendo un processo associativo-relazionale di idee e immagini. Un altro schema più generale, legato a un’organicità sistematica è destinato comunque anch’esso a essere parziale. E quindi fra i vari tipi di visione comunque parziale, sceglierei quella rabdomantica, ma non per questo arbitraria, dell’associazione-relazione.

La prima associazione che sorge quasi spontanea è inizio-prima dell’inizio. Apparentemente ambigua, visto che l’inizio può anche non avere un prima – inizio ex nihilo -, ci pone comunque in una prospettiva di pensiero ben conosciuta da molte mitologie e religioni. L’inno 129 del decimo 'libro' del Rig-Veda, la raccolta di inni poetici alla base della civiltà indiana, ha un celebre e inquietante incipit: «Il Non-essere non esisteva, l’Essere non esisteva». Questa doppia negazione, sia dell’essere che del non essere, è interpretata dagli studiosi in vario modo. Seguendo la lettura  di Joanna Jurewicz se ne può dare un’interpretazione estensiva sia propriamente ontologica che epistemologica, legata quindi sia ai fondamenti oggettivi della realtà, sia a quelli della esperienza «Queste nozioni hanno un doppio significato sia ontologico che epistemologico, così la loro negazione significa non solo che l’Essere e nemmeno il Non-essere esistono nello stato pre-creativo ma anche che è impossibile asserire che qualcosa sia o non sia, la totale inesprimibilità». «Il buio avvolto dal buio» (Joanna Jurewicz, Playing With Fire). 

Quadrato nero - inizio

«Quadrato nero», 1925, Kazimir Malevič

Vi è un’immagine lontana millenni dai Veda che sia visivamente che concettualmente ci accompagna in questa prospettiva: il «Quadrato nero» di Malevič. Al di là del suo significato nella storia dell’arte, è l’icasticità di questa opera che parla non dicendo. Vuoto e non vuoto, non colore, non luce, non forma, inutile da spiegare perché evidente ed enigmatico a un tempo. Nella produzione di Malevič quest’opera si capovolge nel suo opposto, il «Quadrato bianco su sfondo bianco». Apparentemente l’opposto – il bianco è tutti i colori, tutte le frequenze del visibile - ma in realtà allo sguardo concentrato è come il «Quadrato nero»: vuoto e pieno a un tempo, immagine e non immagine, ossimoro visivo.

 

foto 2 quadrato biancoMalevic

«Quadrato bianco su fondo bianco», 1918, Kazimir Malevič

Fissando molto a lungo una parete bianca o una nera alla fine pare di vedere o non vedere la stessa cosa. L’ambiguità logica di ciò che è e nello stesso tempo è il suo opposto è la condizione mentale che ci presenta la visione contemplativa di queste due 'icone moderne'. Dallo stato d’animo così prodotto la nostra coscienza - come in una tabula rasa - percepisce la possibilità dell’apparire: ecco l’ «Inizio».

L’idea di inizio in senso generale può prendere avvio da qui. L’apparire iniziale implica però la nozione di passaggio e la mitologia con le sue immagini ci viene ancora in soccorso, anche al di là  delle parole. Vi è un dio degli inizi e del passaggio, Giano, nella radice del cui nome è già il significato di passaggio, guado: passaggio nello spazio e nel tempo. Il linguaggio mitico che si esplica nella densità di significati implicita anche in una semplice immagine, ha nella figura del dio bifronte la sua icastica conferma.

foto 3 Giano bifronte

Giano, il dio degli inizi

Ma icastici e in qualche modo simbolici non erano anche i quadrati di Kazimir Malevič? Il 'bifronte' guarda avanti e indietro, il prima e il dopo e il senso del passaggio si trova non nei due volti, ma fra i due volti, ossia nella loro semplice giustapposizione. Abbiamo qui un significato che è nella disposizione spaziale degli oggetti e non negli oggetti stessi. Quindi il passaggio non è una cosa in sé ma è nell’ordine del prima e del dopo. 

Una celebre espressione di Anassimandro parla dell’«ordine del tempo»: l’inizio presuppone l’ordine del tempo e ne è presupposto. Così Gano è il dio che apre l’anno e la serie dei mesi con cui ancora oggi organizziamo il nostro tempo. Nella catena di associazioni – relazioni da cui eravamo partiti - siamo quindi all’anello esplicato nei termini primo, nuovo-rinnovamento. A questo proposito viene alla mente un’immagine celeberrima, la «Creazione del primo uomo» nella volta della Sistina (foto 4). Michelangelo attraverso i suoi corpi parla con immediatezza di nuovo, di forma originaria e increata sempre attuale perché fatta di materia incorruttibile e primigenia. Il sentimento estetico suscitato da questa rappresentazione parla con la sua evidenza, iconica come i quadrati nero e bianco da cui eravamo partiti. Il nuovo e increato dunque riporta all’«ordine del tempo» o in parallelo, all’ordine dello spazio. Il Rito è istanza di ordine e nei riti arcaici di fondazione di una città si concentrano l’idea di inizio e di ordine. Ritorna Giano. Nelle genealogie delle divinità che presiedono alla fondazione di Roma, Giano ha un posto eminente, tanto da avere un luogo lui dedicato, il Gianicolo. La nuova città si erge come spazio di ordine in mezzo al caos: nell’antichità all’inizio della storia di una città c’è questo significato che ancora conserviamo. 

Il nostro percorso rabdomantico ci porta così ad aggiungere un ulteriore senso alla parola 'inizio'. In questa prospettiva il lungo e tassonomico elenco di divinità scandite da Esiodo nella «Teogonia» nel suo procedere sintattico estrae, con l’elencare le funzioni degli dei, la forma e l’ordine dall’informe e dal caos. Plastica immagine ne è l’acropoli nelle città antiche, punto sopraelevato, quindi gerarchico, dedicata agli dei. Ancora oggi, l’Acropoli di Atene, sia pure mutila, riesce a trasmettere un principio di simmetria e significato allo sguardo di chi la contempla mentre emerge dall’informe conglomerato cittadino. I sette colli di Roma, consacrati a varie divinità, hanno la stessa funzione. E chi è oggi sulla piazza del Campidoglio riceve un senso di ordine dalle architetture massicce ma 'olimpiche' di Michelangelo che dominano il pullulare irregolare dei tetti. In questa prospettiva si svelano moltissime opere d’arte, architettura, musica e altre produzioni dell’intelletto. Pensiamo ai grandi monumenti megalitici dell’Europa settentrionale che inquadrano il sorgere del sole in vari momenti dell’anno o alla luce rinnovatrice filtrata dalle vetrate delle cattedrali gotiche. Iniziare, quindi è anche formare e organizzare uno spazio e un tempo, siano essi fisici o mentali. Allora il singolare 'inizio' può diventare Il plurale 'inizi', i plurimi inizi di cui lo scorrere altrimenti amorfo del tempo porta traccia. Il tempo stesso dipende dagli inizi, è anche storia di inizi. La storia è ricca di nuovi inizi. La 'Modernità' in cui viviamo è percepita come nuovo inizio, mondo rinnovato dal pensiero razionale, dall’agire pratico, dal pragmatismo strumentale. 

La 'Rivoluzione industriale' è percepita come uno dei “'miti di fondazione' dell’agire moderno, la 'Rivoluzione francese' lo è per quanto riguarda aspetti della visione sociale e politica. Ma mentre molte cosmogonie o miti di fondazione tradizionali implicavano una soluzione di continuità e una crisi finale, escatologica o apocalittica, i miti di fondazione della modernità e la sua stessa ragion d’essere presuppongono una espansione spaziale e temporale illimitata, crematistica. Anche l’«Imperium» romano si vedeva illimitato - «imperium sine fine» (Virgilio) -  ma di una illimitatezza quasi statica, un ruotare eterno intorno a un centro, Roma. L’illimitatezza moderna è invece dinamica e senza centro, spinta dalla crescita e dalla potenza della tecnologia, le 'sovrastrutture' del pensare moderno sono un tutt’uno con le dinamiche delle 'strutture' tecniche ed economiche. 

Siamo dunque nell’ambito di un attuale e rovente dibattito: la crescita infinita e la limitatezza del mondo, un 'inizio' senza fine. Siamo, con 'inizio-fine', all’ultimo anello della catena di relazioni prodotte a partire dalla parola 'inizio'. La realtà, costituita da processi, implica che il sorgere di un processo evolva verso la sua fine, eventualmente innescando a sua volta altri processi con la medesima traiettoria. Ecco il grande 'rimosso' dell’oggi, specie nella retorica spesso acritica post-pandemica: la distruzione, la morte, la fine. La nostra società di compulsivo rinnovamento esclude la dialettica di questi estremi che si implicano a vicenda: inizio-fine-nuovo inizio. Esclude quindi quell’«ordine del tempo» di cui parlava Anassimandro. 

Per concludere vorrei esplicitare attraverso la musica ,'forma del tempo', l’atto di iniziare. La musica ci pone, al di là delle parole, nel sentimento immediato dell’«inizio». Il primo esempio è il Prologo del «Prometeo» di Luigi Nono: si apre con l’immagine sonora del caos primordiale da cui emergono voci corali sospese e nomi recitati delle antichissime divinità greche della Teogonia esiodea.


Il secondo brano è il celeberrimo avvio dell’«Oro del Reno» di Wagner. Dallo statico suono dei contrabbassi e dei fagotti emergono poco alla volta arpeggi che animano progressivamente il paesaggio sonoro conducendo fino all’esordio del canto.

Con queste citazioni musicali la parola «Inizio» si scioglie nella multiforme significanza del suono.

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