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Dove corre l'attimo fuggente?
Il cinema come rappresentazione materiale del tempo
Casablanca - foto: filmmakeriq.com
“Suona la nostra canzone, suonala come allora, suona 'Mentre il tempo passa'. "As Time Goes By". È il nostalgico invito di Ingrid Bergman all’amico Sam, pianista di colore al Rick’s Bar, la location privilegiata del leggendario Casablanca con Humphrey Bogart.
Piccolo grande omaggio del cinema al tempo, questo ingrediente narrativo così importante da impegnare i cineasti in un’operazione fra le più acrobatiche: armonizzare la durata della vicenda narrata con la durata effettiva della pellicola. A meno che non si faccia come il regista di Boyhood Richard Linklater, che ha impiegato 12 anni effettivi per raccontare in tempo reale la storia di un bimbo che cresce, così come crescono intorno a lui genitori, amici e conoscenti. Ma al di là di questo curioso esperimento, la mission di un film può comunque considerarsi compiuta quando lo spettatore, assorto nella visione, non si accorge che ‘il tempo passa’.
Nel recente biopic La teoria del tutto lo scienziato disabile Stephen Hawking, autore del popolare saggio “Dal big bang ai buchi neri”, si chiede se e quando il tempo è cominciato, se e quando il tempo finirà... In questa nostra incursione nella storia del cinema e dei suoi rapporti col tempo escludiamo volutamente il genere fantascientifico che troppo spesso fa della dimensione temporale un uso organico e meriterebbe perciò una trattazione a parte (vedi l’imprescindibile 2001, il ciclo spielberghiano di Ritorno al futuro o il recente Interstellar). Accenniamo solo a In Time, che immagina un futuro in cui gli scienziati hanno isolato il gene dell’invecchiamento e lo controllano, in modo da rendere possibile non morire più. Per ovviare al sovrappopolamento del pianeta, essi decidono di programmare la vita umana per un tempo massimo di 25 anni, oltre i quali, chi vuole continuare a vivere deve pagare non più in denaro ma con frammenti di tempo. In pratica contrattare coi propri simili giorni, ore, minuti. La nuova valuta per allungare la vita è dunque il tempo. Ma come per il denaro, i ricchi lo possono accumulare, mentre i poveri devono elemosinarlo con l’ansia di vedere esaurite le scorte. Una trama non del tutto fantasiosa, se si pensa a come funziona l’odierna “banca del tempo”.
Il Gattopardo - foto: washingtoncitypaper.com
Il polpettone è servito
Se la troppa lunghezza di un film fosse controproducente, non si spiegherebbe l’imperituro successo di film come Via col vento, I dieci comandamenti, Spartacus, Ben Hur, Il dottor Zivago, C’era una volta in America, che in alcuni casi superano le tre ore, ma che ancora vengono premiati dall’auditel a ogni passaggio in tv. Negli anni Cinquanta si affermano i polpettoni ricavati dai romanzi di Edna Ferber, specializzata in storie di ampio respiro, melodrammi, epopee generazionali, amori strappalacrime. In Saratoga la coppia Ingrid Bergman-Gary Cooper scuote i cuori femminili, il para-western Il Gigante si regge sulla istrionica performance di James Dean petroliere per caso, Cimarron descrive il viaggio delle carovane dei pionieri verso le terre promesse, Lo zar dell’Alaska parla di lotte tra famiglie nello scenario di uno stato che si è appena costituito.
Anche importanti registi italiani si lasciano sedurre dalle storie fiume, come Federico Fellini (La dolce vita), Luchino Visconti (Rocco e i suoi fratelli e Il Gattopardo), Ermanno Olmi (L’albero degli zoccoli), Bernardo Bertolucci (Novecento), Marco Tullio Giordana (La meglio gioventù). Ettore Scola, con La famiglia, realizza un grande affresco storico del nostro Paese - il Novecento visto dalle finestre di casa - pur tenendo un profilo minimalista e una durata ragionevole. Heimat, film a episodi del tedesco Edgar Reitz, racconta una saga familiare in cui le vicissitudini private si intrecciano con la storia della Germania dalla Grande Guerra agli anni Ottanta.
Il paziente inglese - foto: filmmakeriq.com
Un trucco chiamato flashback
Quarto potere, del maestro Orson Welles, indaga sul mistero dell’ultima parola pronunciata dal magnate Citizen Kane nel letto di morte: “Rosebud”. Innovatore delle tecniche e del linguaggio filmico, Welles fa un uso molto semplice del flashback, nel senso che cerca di rispettare l’ordine cronologico degli eventi. Tra i primi fruitori del flashback ricordiamo anche il francese Marcel Carné, regista di Alba tragica che, prendendo le mosse da un delitto, descrive per analessi i retroscena dell’insano gesto dell’assassino che ora è accerchiato dalla polizia.
Nel cinema americano classico, il flashback ricorre soprattutto nei film processuali che ricostruiscono per immagini le deposizioni in tribunale (tre esempi a caso: I dannati e gli eroi, Il buio oltre la siepe e Codice d’onore) ed è riconoscibile attraverso l’utilizzo della dissolvenza o ancor più nell’alternanza fra bianco e nero e colore. Ma non sempre è così. Non c’è uso di bianco e nero in famosi titoli come Pomodori verdi fritti in cui l’anziana Jessica Tandy racconta fra presente e passato la sua vita nel profondo sud lacerato dai conflitti razziali, o Il paziente inglese dove un’infermiera e un aviatore precipitato e sfigurato dalle ustioni ripercorrono una complessa vicenda d’amore e di guerra. Nel Titanic di James Cameron il naufragio sta tutto nel toccante ricordo di una superstite di 102 anni (ma in Piccolo grande uomo è ancora più anziano Dustin Hoffman: 120enne testimone dell’intera epopea western, ci racconta di come ingannò il generale Custer a Little Big Horn). Tutto in bianco e nero è invece L’uomo che uccise Liberty Valance, western di John Ford dove la trama in flashback prevede un finale con flashback nel flashback!
A proposito di western, citazione d’onore per Mezzogiorno di fuoco, raro esempio di narrazione in tempo reale: a scandire le ore e i minuti che dividono lo sceriffo Gary Cooper dai banditi in arrivo col treno per un regolamento di conti c’è una pendola che si fa ossessiva con l’approssimarsi del momento fatidico. Un saggio di suspense, certo. Ma il mago incontrastato della suspense resta Alfred Hitchcock. Stratega del montaggio e artefice di ritmi serrati e calibratissimi, si vorrebbe che i suoi film non finissero mai, pur col desiderio di sapere come vanno a finire. Eccone tre nei quali il tempo è funzionale all’organizzazione della trama: Il delitto perfetto, noir da camera con Grace Kelly in balìa del sicario del marito, L’uomo che sapeva troppo, spettacolare odissea di James Stewart in cerca del figlio rapito, e La donna che visse due volte, straordinario thriller in cui il concetto di tempo sta nel titolo stesso.
Hiroshima mon amour - foto: artnoise.it
Una nuova rivoluzione francese: la nouvelle vague
Abbiamo visto come fino agli anni Cinquanta il cinema prediliga storie semplici e scorrevoli, limitandosi a correggere gli scompensi di lunghezza fra le sequenze mediante tagli di chilometri di pellicola. Ma proprio sul finire del decennio scoppia la rivoluzione culturale francese detta Nouvelle Vague, in cui i tempi narrativi non sono più un fattore fisico-cronologico ma psicologico-emotivo. Redattori d’assalto dei mitici “Cahiers du Cinéma” come Jean-Luc Godard, François Truffaut, Jacques Rivette e Alain Resnais (cinefili inossidabili e raffinati intellettuali) passano dietro la macchina da presa e, partendo dal presupposto che il cinema non deve essere il parente povero della letteratura, cercano nuove vie per elevarlo, liberandolo dalle convenzioni e teorizzando il primato dell’impronta personale del regista. Si riprende insomma la concezione neorealistica di “cinema d’autore”. Perseguendo obiettivi di razionalità e laicità, il cinema della Nouvelle Vague non è più il luogo in cui lo spettatore si lascia ingenuamente catturare dalla storia, ma quello dove egli è costantemente conscio che sta fruendo di una forma d’arte adatta a chi possiede apertura mentale e spirito critico. Si assiste cioè al passaggio dalla narcosi hollywoodiana che nel suo perfezionismo cerca di “non far sentire il rumore della cinepresa” al tentativo di farla sentire di proposito, quasi provocatoriamente. A questo punto anche l’elemento temporale assume un nuovo ruolo. Secondo Resnais, ad esempio, il presente fugge via e diventa passato che si trasfigura nel ricordo. Quello di Resnais è cinema della memoria. Vedi L’anno scorso a Marienbad, dove un uomo e una donna scandagliano il loro vissuto per scoprire se non si siano già conosciuti, oppure Hiroshima mon amour, in cui il tempo influenza i ricordi dei due protagonisti, lui giapponese e lei francese: la loro mente “fa la spola” fra la guerra e gli anni Sessanta in un gioco che alterna e associa il dolore collettivo dell’immane strage alle tribolazioni d’un amore privato.
Ma la Nouvelle Vague, pur lasciando un segno profondo nel cinema europeo, non diventerà mai popolare come la “fabbrica dei sogni” d’oltreoceano.
Pulp fiction - foto: selfiemadegirl.com
Come scatole cinesi
Pulp fiction di Quentin Tarantino rimanda nientemeno che a Godard per l’originalità dell’impianto e la cura del linguaggio. Con Tarantino i nessi narrativi si confondono nell'uso di ellissi che spezzano la tradizionale linearità a favore di un racconto “circolare”. Farcito di situazioni truculente descritte con l’ironia di chi sembra volerci avvertire che lui si diverte così e noi non possiamo farci niente, Tarantino procede alla destrutturazione cronologica di una trama che non è più una trama, anche se alla fine prologo ed epilogo si raccordano.
Altro film esemplare è C’era una volta in America di Sergio Leone, storia di amicizia fra gangster ebreo-newyorkesi che si sviluppa su più piani temporali intrecciati senza logica apparente. Tant’è che i protagonisti ringiovaniscono e invecchiano e viceversa lungo il filo robusto di un’epoca che va dagli anni Trenta ai Sessanta. È l’ultimo atto d’amore di Sergio Leone per il vecchio cinema americano, entrato nel cuore di tante generazioni che hanno sognato ad occhi aperti nel buio della sala. Con questo film il regista romano si rivela non solo un impareggiabile narratore, ma anche un architetto di talento capace di ricostruire l’ambiente con precisione maniacale, scrivere battute memorabili e soprattutto imprimere ai suoi personaggi una dimensione proustiana.
Youth (La giovinezza) - i.ytimg.com
Elogio della lentezza
Un regista italiano che lavora sul tempo è Michelangelo Antonioni. Lunghi e dilatati piani sequenza, vuoti descrittivi e silenzi interminabili sono le cifre di una produzione che ha come punta di diamante la “trilogia dell’incomunicabilità”: L’avventura, La notte e L’eclisse. Trilogia che diventa tetralogia con l’aggiunta di Deserto rosso, dove l’autore introduce per la prima volta il colore abbinandolo agli stati d’animo dei volubili esponenti della borghesia post-bellica.
Anche il regista greco Theo Angelopoulos gira opere rarefatte, contemplative, estenuanti. In L’eternità e un giorno un anziano poeta che sta per affrontare il ricovero in ospedale trova per caso una lettera della moglie che, rievocando un’estate di trent’anni prima, si fa galeotta fra lui e il tempo: inizia infatti un viaggio per raccogliere sentimenti e umori del passato che finiscono per contaminarsi con la malinconia del presente.
Valerio Zurlini si richiama esplicitamente alla metafisica di Buzzati con l’angoscioso Il deserto dei Tartari. In una fortezza ai confini del mondo, i soldati consumano le loro esistenze in attesa di un presunto assalto nemico. Intimoriti da frequenti allucinazioni, vagano fra le mura scrutando l’orizzonte. Ma niente, nessuno si fa vivo. Col tempo la paura si attenua, ma svaniscono anche i sogni di gloria. E i soldati invecchiano inutilmente, compreso il tenente Drogo che, malato e in fin di vita, viene portato via in carrozza proprio mentre in lontananza si materializza una cavalcata spettrale: i Tartari o un miraggio? Un’illusione prima di morire o una beffa del destino?
Altro autore che sente il bisogno di “coltivare” il tempo è Ermanno Olmi. A inizio carriera firma un prezioso filmetto, Il tempo si è fermato, sull’inverno di due custodi di una diga le cui vite si susseguono sempre uguali a se stesse, nei riti della quotidianità, nel silenzio freddo delle notti, nella solitudine dei monti. La cinepresa percepisce con sensibilità poetica l’incanto della vita e l’incantesimo della natura. Lontano dai rumori delle macchine e dal vociare degli uomini, il cinema di Olmi è un invito a guardarsi dentro e a ricercare le proprie radici. Il tempo si fa dunque sinonimo di pacatezza, lentezza, meditazione profonda. Come nel suo ultimo film, anch’esso di stampo buzzatiano, Torneranno i prati, che descrive l’angoscia di un manipolo di soldati della Grande Guerra confinati in un avamposto sommerso dalla neve. Interrogandosi sul mestiere delle armi ma soprattutto sul mestiere di vivere, Olmi è nostalgico cantore di patrimoni perduti.
Ultimo degno omaggio cinematografico al tempo ci viene da Paolo Sorrentino. Il suo Youth - La giovinezza parla di una coppia di anziani in vacanza sulle Alpi svizzere: un direttore d’orchestra in pensione e un regista che sta girando il suo film-testamento. I due riflettono sul senso della vita osservando, fra mostruosità e bellezze, il campionario di varia umanità ospite d’un lussuoso albergo. Di grande impatto visivo e sonoro, Youth è un film sulla perdita delle emozioni, sulle passioni che si vorrebbe far sopravvivere, sul senso della morte imminente.