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Lo strano piacere di lasciarsi spaventare
Al cinema tra ombre, fantasmi e scricchiolii
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«La paura non può essere senza speranza,
la speranza non può essere senza paura»
Baruch Spinoza
Strano ma vero. Si va al cinema non solo per sognare, per emozionarsi, per ridere o piangere, ma anche per avere paura. Si cerca di provare sensazioni e tensioni intime che nella vita reale si vorrebbero evitare. Scatta il sadomasochista che è in noi e ci solletica l’idea che una scena spaventosa finisca persino peggio di come è iniziata: nel sangue, col morto, fra urla laceranti. Non c’è speranza di happy end, eppure ci prende una sorta di godimento. Come in un transfert psicologico, partecipiamo con tutto il nostro io all’azione delle terze persone che sono gli attori, ma intanto ci facciamo forti di un pensiero consolatorio: in fondo è solo un film.
Gli occhi della notteUn elemento portante delle paure cinematografiche è il buio. Ci suggestiona e ci toglie il fiato proprio perché è il contrario della luce, che conforta la nostra vista e dispensa certezze. Senza luce ci sentiamo persi. I personaggi che si muovono nell’oscurità o sono in pericolo o stanno mettendo in pericolo gli altri. Il buio è il ‘luogo’ in cui si agitano fantasmi, assassini, entità paranormali, alieni venuti da altri mondi o da altri tempi. Nel buio cresce il mistero. I mostri sono spesso proiezioni dei turbamenti del nostro inconscio. Ombre che si muovono fra scantinati attraversati da ragnatele, porte che cigolano, pezzi polverosi di logori mobili, dove innocenti fanciulle il buio lo sfidano con la tremolante fiamma di una candela. Il buio totale è la cecità e i film sulla cecità hanno tutti una speciale suggestione. Un solo esempio: Gli occhi della notte, dove una donna priva della vista è chiusa in casa in balìa di spacciatori che vogliono recuperare una partita di droga finita chissà come nel suo appartamento. Non capolavoro, ma film ricco di colpi di scena e favorevolmente accolto dal pubblico, incantato da un’icona degli anni Sessanta come Audrey Hepburn.
Il cinema non ha mai rinunciato a rappresentare la paura, un sentimento che ci riporta ai primordi della storia, a umane ancestrali angosce. E come il cinema cambia pelle nella sua ormai lunga cavalcata plurisecolare, così cambiano sullo schermo le forme della paura. Non però la sostanza.
Inquietudine del 'doppio'
Un soggetto cinematografico ansiogeno, che in verità ha origini letterarie, è quello del ‘doppio’. Ego e alter-ego a confronto in un processo di identificazione o di incontro-scontro. Le storie sul ‘doppio’ ci turbano perché sprofondano nei meandri della nostra psiche dove natura vuole che il bene e il male siano in continua lotta. Il ritratto di Dorian Gray, il celebre romanzo di Oscar Wilde sull’argomento, ricalca il faustiano patto col diavolo: l’autore di un quadro resta giovane mentre il soggetto ritratto invecchia. Ma Wilde al cinema è meno fortunato di Stevenson, che ha invece sempre spopolato con Il dottor Jekyll e Mr. Hyde: gli audaci esperimenti che il bravo medico fa su di sé danno vita, pian piano, al brutto e cattivo signor Hyde, che alla fine prende il sopravvento minacciando il trionfo del male sul bene. Anche la figura di Frankenstein è emblematica, perché è così singolare il processo di apparente simbiosi fra lo scienziato (Frankenstein) e la sua creatura che ci siamo abituati a chiamare Frankenstein anche la creatura. La cosa è spiegabile se si pensa che il mostro altro non è se non l’incarnazione della follia dell’uomo che nel suo delirio di onnipotenza osa sostituirsi a Dio.
Il dottor Jekyll e Mr. Hyde (cultura.biografieonline.it)
In Psycho Hitchcock racconta il ‘doppio’ utilizzando la malattia mentale. Il giovane gestore di un motel si identifica con la madre morta, che tiene in casa imbalsamata. A terrorizzare lo spettatore non è solo la leggendaria scena della doccia, ma anche lo psicopatico vestito da donna col coltello in mano, che vuol proteggere dagli intrusi il cadavere materno adagiato su una poltrona in cantina. Sotto l’oscillare di una lampadina, gli occhi del teschio sembrano aprirsi e chiudersi, quasi fosse viva! Dal ‘doppio’ all’‘ambiguo’ il passo è breve. Secondo Hitchcock la realtà non è mai vista in maniera univoca: l’ambiguità a un certo punto prende il sopravvento e i soggetti coinvolti entrano in crisi (come in La donna che visse due volte). L'innocente che si confonde col colpevole è uno dei temi preferiti dal mago del brivido. L'assassino per “Hitch” è un comune cittadino che nasconde dietro la maschera del perbenismo la sua indole omicida: l’anormalità camuffata da mitezza rende sottile il gioco della suspense. Ma il maestro è capace anche di rovesciare le dinamiche, come in Intrigo internazionale, dove una brava persona è scambiata per una pericolosa spia e gliene succedono di tutte.
Che fine ha fatto Baby Jane? dimostra come può essere enigmatico il rapporto fra donne. Una storia che vede a confronto due dive del passato, Joan Crawford e Bette Davis, capaci di tramutarsi in ‘streghe dentro’ e addirittura di scambiarsi i ruoli.
Realismo misto a espressionismo è invece la formula scelta da Fritz Lang per M. il mostro di Düsseldorf, dove un individuo abominevole violenta e uccide bambine adescandole in oscuri vicoli.
Il vampiro esprime i due volti della paura: quella del mostro tout court, che troviamo nel classico del muto Nosferatu di W. F. Murnau (spettrale, scarnificato, gobbo, calvo, ungulato, pestifero, che preannuncia la maledizione chiamata nazismo, come già fece Il gabinetto del dottor Caligari) e quella delle più moderate versioni successive che del vampiro descrivono, più che l’informe aspetto fisico, il malessere interiore dovuto alla sua condizione di diverso. Casi emblematici sono il fascinoso Bela Lugosi, l’aristocratico conte Dracula a colori di Christopher Lee e lo splendido remake di Nosferatu ad opera di Werner Herzog, dove il mostro viene raffigurato come un essere fragile e malinconico, infelice perchè condannato alla solitudine eterna e alla sofferenza per mancanza d’amore. Se Dracula non è una figura propriamente doppia, lo sono i connotati che lo distinguono, sospeso com’è tra bene e male, vita e morte, eros e sangue. Pur di succhiare la linfa vitale, che è poi l’amore tanto desiderato attraverso i secoli, egli non vede - o finge di non vedere - che le tenebre si diradano e spunta il grande nemico: il sole, la luce che lo annienterà.
Klaus Kinski in Nosferatu
Metamorfosi per le bestie
È dai tempi delle favole di Fedro che la letteratura ha scelto il lupo come animale feroce per antonomasia e dunque incarnazione del male. Il lupo è al centro di note fiabe ottocentesche. Una per tutte: Cappuccetto Rosso. Simbolo di aggressione e di fami arretrate, è un animale che ben si presta a quei mutamenti genetici che sono essi stessi fonte di terrore, dal Licantropo in bianco e nero di Lon Chaney a quel gioiellino horror dei primi Ottanta che è Un lupo mannaro americano a Londra in cui la produzione, nel trasformare il protagonista da essere umano in animale, fa lento sfoggio dei sorprendenti trucchi delle nuove tecnologie.
Ma vasta e articolata è la gamma degli animali che fanno paura al cinema. Basta ricordare Lo squalo, King Kong, Godzilla, gli stessi Uccelli di Hitchcock. In Lo squalo, bestione che affiora dagli abissi alla stregua di Moby Dick, Spielberg fa divorare dal mostro marino il cacciatore di squali in una sequenza fra le più raccapriccianti. King Kong, che rivisita il tema di La Bella e la Bestia, evoca le nostre primordiali radici africane: lo scimmione si arrampica sull’Empire State Building di New York come se fosse un albero della giungla da cui proviene. Come dire: la metropoli, espressione di modernità, altro non è che una giungla d’asfalto e di cemento. Gli Uccelli, piccoli ma sempre più numerosi e invasivi, sono i segni di un’apocalisse prossima ventura, mentre Godzilla è il prodotto dell’apocalisse già avvenuta. Strascico post-nucleare è la gigantesca Tarantola degli anni Cinquanta, epoca in cui la fantascienza americana incuteva ossessioni anche politiche (era in corso la ‘guerra fredda’). Il classico L’invasione degli ultracorpi rende molto efficaci la paura collettiva, il panico, l’assurdità di uomini disumanizzati al punto di non riconoscersi a vicenda. Alla fine di questo film di Don Siegel un canto soavissimo recupera il mito delle sirene, che ti seducono e ti attraggono, ma per annientarti.
D’altra parte è risaputo che la paura dell’ignoto è il motore del genere fantastico. Lo testimonia il singolare episodio - ancor oggi assai citato - che rese celebre Orson Welles: sul finire degli anni Trenta il geniale regista scatenò il panico in America trasmettendo la finta radiocronaca di una invasione di marziani.
Altri animali sono passati sullo schermo: vermi, api, pesci piranha, dinosauri, pantere … Persino una mosca. In L’esperimento del dottor K una tragica fatalità interviene a interrompere un tentativo di trasmigrazione di corpi attraverso la disintegrazione. L’esito è la formazione di due mostri: una mosca con testa umana e un uomo con testa d’insetto (negli anni Novanta un regista specializzato in metamorfosi, David Cronenberg, riprende l’argomento in La mosca impreziosendolo di straordinari ma anche un po’ stomachevoli effetti speciali). Tutti questi mostri rappresentano la ribellione della natura all’irriverenza e al disprezzo dell’uomo, troppo fiducioso nelle ragioni del progresso.
Mostri dentro e fuori di noi
L’apice della paura ha un nome: morte. La morte è la dimensione alla quale siamo tutti ineluttabilmente destinati. Ecco perchè i cineasti non si sono lasciati sfuggire un ghiotto argomento come quello degli zombie, cadaveri viventi vaganti e ciondolanti che si portano appresso la loro putrefazione. Putrefazione alla quale non sfuggiremo nemmeno noi, che siamo in vita ma per morire! Gli stessi vampiri sono zombie, solamente un po’più eleganti. Nosferatu è termine rumeno che significa ‘non spirato’, dunque ancora vivo. Uscito dai labirinti misteriosi delle piramidi d’Egitto, negli anni Trenta Boris Karloff ci terrorizzò avvolto tra le fasce della La mummia, risorta grazie a una formula magica.
Altro elemento dirompente è la diversità. Non quella fantastica dei vampiri, ma la diversità vera e propria. Con Freaks Tod Browning porta sullo schermo persone realmente affette da gravissime malformazioni e costruisce intorno a loro una lugubre storia circense dove l’handicap appare come una condizione negativa che priva l’uomo della sua dignità e lo rende oggetto di derisione descrivendolo in modo che noi ‘normali’ ci si possa giusti, intelligenti, belli e bravi. La visione disturbante di questi esseri scatena le nostre crudeltà nascoste.
La dimensione corporea è al centro dell’interesse di un cineasta visionario di nome David Lynch. Sin già dalla sua opera d’esordio, Eraserhead, l’incubo la fa da padrone: una strana coppia genera un figlio-feto simile a una larva che si lamenta incessantemente straziando il pubblico. The Elephant Man racconta di un essere deforme ma di animo colto e gentile, che cerca il contatto con gli altri ma si vede respinto. Anzi, è lui stesso a ritrarsi per paura di far paura! Intanto il nano della serie Twin Peaks sembra aver ispirato L’imbalsamatore di Matteo Garrone, l’unico regista italiano sedotto dal tema della mutazione (ottimamente trattato nel suo ultimo film Il racconto dei racconti). Rosemary's baby di Polanski punta su un’altra antica paura: quella del diavolo. Per stile e sensibilità, Polanski, cupo nella misura giusta, è decisamente più raffinato del collega William Friedkin, che nel suo cult L’esorcista ci dà il voltastomaco con le vomitate verdi dell’indemoniata Linda Blair.
Dopo i Settanta l’horror perde la sua connotazione gotico-romantica per diventare metropolitano. Ne sono alfieri Wes Craven e John Carpenter, che dispensano scene cruente in quantità industriali. Carpenter, l’ideatore di Halloween, impone le allucinanti sagome delle zucche intagliate. Craven, in Nightmare, affida l’incarnazione dell’incubo a Freddie Kruger, mostro onirico deturpato in volto da terribili ustioni e con lame al posto delle dita. Su questa scia fa il resto la serie Amityville, che riprende il mito della casa stregata, quasi sempre fuori mano e dove i soccorsi sono impossibili.
Se c’è uno scrittore che ben si presta a essere adattato per lo schermo è Stephen King. Dopo aver seminato il terrore col pagliaccio della mini-serie tv It, regala a Kubrick una chance eccezionale: Shining, lucida dimostrazione di come spazio e tempo influenzino uomini e cose. Riprese grandangolari trasformano in un labirinto l’hotel Overlook, il buen retiro del diabolico e sogghignante Jack Nicholson nei panni di uno scrittore che deve ultimare il suo romanzo in pace (si fa per dire). Anche Kubrick accenna al ‘doppio’ presentandoci le arcane gemelline che stupiscono il piccolo veggente in triciclo lungo i deserti corridoi dell’albergo.
Jack Nicholson in Shining
Nel secondo dopoguerra irrompe la figura del serial killer, che ricordiamo in due pellicole significative: Il silenzio degli innocenti e Seven. Il primo racconta la storia di uno psicopatico con tendenze antropofaghe. Nell’altro un sedicente giustiziere inventa esecuzioni tanto ingegnose quanto orripilanti ai danni di chi commette peccati capitali.
Il maestro nostrano della paura si chiama Dario Argento. Il suo pezzo forte, Profondo rosso, è una ‘contaminatio’ fra terror e thriller alla quale non sono estranee le suggestioni dell’ipnotica colonna sonora dei Goblin. Qui, come in tanti film, un pupazzetto meccanico è usato come veicolo di paura. Chissà perché pupazzi e bambole trasmettono nei film un senso di inquietudine? Forse perché temiamo che il male possa scaturire laddove non si può immaginare che sia, come appunto nei giocattoli, innocui e fragili. Da qui la nostra percezione di non essere al sicuro in nessun luogo, nemmeno in una cameretta per bambini.
Claustrofobia
L’inferno di cristallo è il grattacielo di San Francisco in cui divampa un terribile incendio, causato da un corto circuito nel salone panoramico all'ultimo piano dove si svolge la festa di inaugurazione. E il salone diventa una prigione. Pietra miliare del disaster-movie, il film si avvale di un cast stellare, effetti spettacolari e sequenze mozzafiato. La fanno da padroni le fiamme, il vuoto e l’intrappolamento. A proposito di vuoto e intrappolamento, non va dimenticata la serie Airport: la minuziosa cronaca dell’incidente aereo è certamente molto efficace nell’azione di coinvolgimento dello spettatore chiamato a condividere il terrore coi passeggeri. Un terrore multidirezionale: l’avaria che è la causa numero uno, gli scossoni che provocano altrettante scosse del cuore, il sentirsi prigionieri nel chiuso tubolare della fusoliera, l’essere sospesi in aria non si sa per quanto tempo. Insomma, in pochi casi come in aereo ci si sente impotenti.
Alien è un mostro per astronavi. Semina il terrore a bordo, e l’unica superstite dell’equipaggio sarà una donna: la giunonica Sigourney Weaver. Il regista Ridley Scott mescola sapientemente fantascienza e horror, come farà anche in Blade Runner.
Panic Room è la camera blindata da dove, tramite monitor, si può osservare il resto dell’appartamento. Lì dentro sono rintanate due donne per nascondersi da loschi individui penetrati nel cuore della notte. Un’escalation di paura. Il rifugio si trasforma in trappola e ci si mette anche il solito problema di salute: la ragazza ha bisogno di cure mediche, ma le medicine si trovano fuori.
Io non ho paura
Io non ho paura di Gabriele Salvatores ci porta in un paesino del nostro Sud. Un gruppo di ragazzi scopre un terribile segreto: qualcuno ha segregato in un tetro pozzo un loro coetaneo. Ma la paura non viene dal pozzo bensì dalla vile indifferenza degli adulti. La sensibilità di quei ragazzi rimane ferita nel vedere in veste di spauracchi proprio i grandi, dai quali dovrebbero invece ricevere sicurezze e protezione.
Citiamo infine il regista di origine indiana M. Night Shyamalan e la sua capacità di instillare angoscia ‘per sottrazione’, di mostrare in pratica il minor numero possibile di elementi paurosi giocando sull’attesa di cose che magari nemmeno accadono. Come in The Village, dove gli abitanti di un piccolo e isolato borgo non osano avventurarsi nella vicina foresta che secondo vecchie tradizioni sarebbe popolata da entità malefiche.