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Il lato oscuro della mente
Tra pellicole dove i mostri sono dentro o fuori
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Due sono le cause che spingono gli uomini verso il male: una è l’assenza di coscienza morale, l’altra la perdita di equilibrio mentale.
Ma se per questo secondo caso si cerca il rimedio attraverso le cure mediche, più complesso si fa il discorso sulla mancanza di senso etico, che può essere individuale o sociale e che produce guai seri. Alla base di tutto vi sono carenze educative familiari, una errata formazione scolastica, politiche dissennate, le ingiustizie di una collettività inquinata che ha perso la bussola dei valori. Il nostro tempo si distingue per disorientamento e sbracamento generale. L’uomo sa riconoscere il bene e il male, li sente dentro. Ma la sua indole fragile lo frena alle soglie del bene per dirottarlo sull’altro fronte. Detto in soldoni, siamo dei viziati e degli irresponsabili che annaspano in un mare di tentazioni e che si lasciano spaventare dalle incertezze del futuro. Solo le religioni, aggrappate a tradizioni secolari, ci avvertono che il male incombe come qualcosa di assai più forte di noi, insidioso e prepotente ieri come oggi. Qual è del resto il monito di papa Francesco? «Uomini, - dice - affidatevi alla chiesa, unica in grado di garantire un’etica sicura e immutabile, punto di riferimento per tutti, credenti e non».
Il male non esiste in sé: risiede nelle menti vacillanti, cova al loro interno per poi manifestarsi esteriormente nelle forme più imprevedibili. La morte corre sul fiume di Charles Laughton, in cui un falso predicatore perseguita due piccoli indifesi, è un film che coniuga fiaba e thriller, bianco e nero, luci e ombre. Tutti contrasti sui quali campeggia il contrasto numero uno: il bene e il male in lotta fra loro. Non a caso sui dorsi delle dita del protagonista sono tatuate le parole ‘love’ e ‘hate’ (amore e odio).
Le avanzate tecnologie hanno rivisitato e rilanciato vecchi ideali come l'uguaglianza, la libertà, la cultura, la democrazia. Una rilettura che ha però rimescolato le carte del bene e del male alimentando inquietanti ambiguità. E dall’ambiguità al male il passo è breve. The Departed, gangster-movie griffato (il regista è Martin Scorsese), tenta ad esempio l’operazione più spericolata: quella di impedire allo spettatore di distinguere il bene dal male attraverso un intreccio volutamente aggrovigliato. Stesso tema - ma molto più semplificato anche se altrettanto carico di suspense - tratta il regista Robert Aldrich in Che fine ha fatto Baby Jane?, in cui mette a confronto due indecifrabili sorelle rivelando solo alla fine quale delle due è in realtà migliore dell’altra.
Come i film di guerra si fondino sulla interscambiabilità fra bene e male ce lo dimostra da par suo Clint Eastwood. Traendo spunto dalla storica battaglia di Iwo Jima nel Pacifico, il ‘grande vecchio’ del cinema americano dirige infatti, uno dopo l’altro, due film speculari: Flags of our Fathers, in cui fa prevalere il punto di vista dei marines, e Lettere da Iwo Jima, dove si cala nei panni dei soldati giapponesi. Il tutto per dimostrarci che i nostri nemici ci vedono come loro nemici.
Il male di oggi si chiama terrorismo islamico e il cinema non ha perso tempo a offrirci i primi prodotti sull’argomento. Citiamo almeno Munich, Syriana, World Trade Center, Zero Dark Thirty...
Nell’ormai lunga storia del cinema, è raro trovare film che sfuggano a questa tematica. Anzi, l’idea di fondo delle vicende narrate è la necessità costante di declinare le forme del male perché attraverso di esse si possano individuare quelle del bene. Di questo conflitto che ha origine con l’origine dell’uomo, il cinema ha sempre rappresentato i molteplici volti, i drammi che si scatenano e persino una certa qual fascinazione che il male stesso emana.
Non possiamo dare troppo spazio ai filoni più inflazionati come fantascienza, horror e noir, altrimenti dovremmo scrivere non un semplice articolo ma una corposa enciclopedia monotematica che oltre tutto, più ancora del tema del male, svilupperebbe quello della paura. Vampiri, spettri, mummie, mostri e varie belve umane si sono oggi trasferiti dalle cupe brughiere dell’Ottocento nordeuropeo alle moderne location metropolitane anche d’oltreoceano. Non più dunque i canini del romantico conte Dracula di Bram Stoker ma gli artigli da incubo di Freddie Kruger, non più le creature degli scienziati pazzi alla Frankenstein ma il ghigno terribile dei clown di Stephen King, non più i fuorilegge americani degli anni Quaranta che uccidono le loro vittime a colpi di pistola, ma pazzi sanguinari che le affettano con la motosega. Non scomoderemo neppure la copiosa produzione sul nazismo, il male assoluto che trova in Schindler’s List, film del regista di origine ebraica Steven Spielberg, la sua più compiuta, sentita e spettacolare espressione (anche se non possiamo tacere La caduta degli dei di Luchino Visconti, dove la perversione del regime hitleriano trova il suo tragico culmine nell’incesto).
La caduta degli dei
È d’obbligo qualche incursione nel genere del terrore, là dove ha giustamente preso posto qualche classico. Come Dr. Jekyll e Mr. Hyde, film di origine letteraria (dal celebre romanzo di Robert Louis Stevenson) che ha attirato registi di più generazioni a partire dal cinema muto. Nel segreto del suo laboratorio, il mite dottor Jekyll si inietta un siero che lo trasforma fra atroci sofferenze nel signor Hyde, uomo che incarna l'essenza del male. Il medico agisce per amor di scienza, ma alla lunga gli effetti del farmaco prendono il sopravvento ed egli finisce in totale balìa del suo lato malvagio. Il messaggio è tutt’altro che incoraggiante: l’uomo, debole e incapace di gestire una doppia personalità, precipita inesorabilmente nell’assuefazione al male. Il dottor Jekyll, esponente della buona società vittoriana, ha avuto la malaugurata idea di intraprendere una sfida faustiana contro le leggi di natura e ora paga con la condanna a morte. A prova del trionfo del male sono le stesse fattezze mostruose del signor Hyde, che dopo il decesso non hanno più ragione di essere e svaniscono per assumere quelle umane dello sconfitto dottor Jekyll.
Facciamo un salto ai giorni nostri per accennare a un film di argomento non dissimile, Il cigno nero, di Darren Aronovsky, ispirato al celebre balletto di Ciaikowsky. Una ballerina a cui è stato affidato il ruolo del cigno bianco, simbolo di innocenza, si ingelosisce della collega che impersona il malefico cigno nero e si avventura nell’esplorazione del lato oscuro della sua anima fino a lasciarsi prendere da una implacabile ossessione che ha come epilogo una mutazione genetica.
Si diceva che, lasciatosi alle spalle le atmosfere gotiche, il male si è agevolmente integrato nella modernità. Due esempi: l’ansiogeno Rosemarie’s Baby di Roman Polanski, storia di una donna incinta che partorirà il maligno, e Un lupo mannaro americano a Londra di John Landis, dove un giovanotto della borghesia anglosassone si trasforma in licantropo.
Altro film che fa scuola è L’esorcista, dove un prete si trova a combattere contro una ragazzina indemoniata che vomita bile in quantità industriali. Linda Blair, la posseduta, è un vero pugno nello stomaco per lo spettatore, anche perché il regista americano William Friedkin è riuscito a trattare il paranormale in maniera così realistica da farlo risultare credibile. Siamo a New York, ma il carattere 'cittadino' del plot resta fuori. La vicenda è immersa in una quotidianità che trascura l’elemento scenografico per addentrarsi nel cuore delle paure più profonde, dove persino il demonio può considerarsi di casa.
Mostri dentro
Il tema del doppio piace al maestro Alfred Hitchcock, che in Psycho fa diventare cattivo persino un attore dalla faccia d’angelo come Anthony Perkins, nel ruolo di un modesto albergatore morbosamente legato alla mamma (morta e tenuta imbalsamata) fino a confondersi con lei in una sorta di edipico rapporto necrofilo. Il regista M. Night Shyamalan, in Split, non può non aver fatto tesoro della lezione hitchcockiana nel descrivere il comportamento di uno schizofrenico quasi pedofilo con ben 23 personalità diverse!
In Arancia meccanica il male si chiama violenza. In questo cult di Stanley Kubrick irrompe su uno scenario fatto di quartieri urbani un branco di picchiatori, drogati e stupratori. Il paradosso sta nel fatto che il loro capo, stranamente appassionato di musica classica, porta a termine le sue bravate sulle note di Beethoven e Rossini, peraltro arrangiate in modo scherzoso. Condannato e imprigionato, gli promettono la libertà se in cambio si lascia sottoporre a una scioccante terapia sperimentale. Il film si snoda entro una cornice senza speranza di riscatto: in una avveniristica società massificata l’individuo, frustrato perché psicologicamente irrisolto, crede di neutralizzare la propria nullità tramite azioni scellerate e vendette animalesche.
Shining
Kubrick colpisce anche con Shining (da Stephen King). Si chiama Overlook l’albergo isolato sulle Montagne Rocciose dove uno scrittore si ritira con la famiglia per comporre il suo nuovo romanzo. Deve però fare i conti coi fantasmi del posto (retaggio iniquo di un delitto qui commesso anni prima) e con le doti di veggente del figlioletto che, chissà perché, appare di giorno in giorno sempre più terrorizzato. Memorabili le corse del piccolo in triciclo per i deserti corridoi dell’albergo e l’apparizione delle due gemelline uccise a suo tempo e ancora grondanti fiumi di sangue. Intanto, in preda a crescente raptus uxoricida, lo scrittore insegue la moglie con una minacciosa scure ma, finito nel labirinto innevato del parco, vi muore congelato. Per questa esplicita riflessione sulle radici del male che può celarsi anche in un’anima innocua come quella di un romanziere, Kubrick si avvale dell’istrionico Jack Nicholson, così immedesimato nel sadico ruolo che non riuscirà più a scrollarsi di dosso quella smorfia malefica nemmeno quando reciterà in film leggeri!
In Seven di David Fincher, Brad Pitt e Morgan Freeman sono investigatori in cerca di un delirante serial killer che ammazza nel segno dei sette peccati capitali. I due poliziotti sono in qualche modo antitetici: Pitt è il novellino che crede ancora in un mondo di giustizia, Freeman il veterano rassegnato a ogni nefandezza… tranne che a quelle del film in questione! Qui infatti il male si prende la rivincita. Un male così astuto da comprendere che il suo moderno avversario non è il bene ma l’indifferenza. Le scene macabre non tolgono a Seven le caratteristiche di apologo morale (una morale dalla quale rifuggono invece i massacri ostentati e quasi giocosi dell’esuberante Quentin Tarantino).
Non è da meno Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme, dove il male si incarna in un perfido seduttore: il brillante psicanalista Hannibal Lecter rinchiuso in un manicomio criminale con un’accusa non da poco: cannibalismo. Una giovane recluta dell'Fbi, incaricata di scovare un efferato criminale, viene mandata da lui per… consulenze! Il film vuole fornirci l’ennesima prova che il male alligna dentro di noi, nelle nostre viscere, nei labirinti più reconditi della mente.
Wall Street di Oliver Stone è uno spaccato dell’universo finanziario americano negli anni Ottanta. Il dio del male si chiama denaro e i protagonisti, malati di yuppismo e rampantismo, sono pronti a tutto per arraffarne quanto più possibile. Il personaggio principale, Gekko, adora il libero mercato e sfrutta ogni incongruenza di un capitalismo fuori controllo. Tipico self-made-man senza scrupoli, Gekko si è spietatamente fatto largo fra i più feroci squali dell'alta finanza e del business, divenendo emblema dell’avidità che tiene sotto scacco l’America reaganiana.
Attrazione fatale
Di tutt’altro genere Attrazione fatale, di Adrian Lyne, dove il diavolo è femmina. Protagonista un tranquillo avvocato della middle-class statunitense con bella casa e famigliola modello. Una sera però, a un party, incontra una virago che lo seduce, lo ammaglia, gli fa perdere la testa. Gli piacerebbe risolverla come una normale scappatella, ma non sarà così. Lei non lo molla più, lo perseguita, lo minaccia fino a penetrargli in casa. Ossessiva e insaziabile, gli rende la vita impossibile sinché la moglie non scopre la tresca ed è finale al cardiopalma. Ma lui, nel rappresentare gli affetti familiari capaci di resistere alle lusinghe dell’eros, assicura l’happy end. Il film altro non è quindi che il tipico prodotto hollywoodiano patinato e ruffiano.
Spiriti tormentati
Agnus Dei è un’operina minimalista davvero meritevole che porta la firma di Anne Fontain. Nel silenzio di un convento freddo, spoglio e fatiscente, all’indomani del secondo conflitto si consuma un dramma inaudito. Le suore vengono violentate dai soldati sovietici e alcune di loro rimangono incinte. Qui il male contamina la purezza e trasforma i deboli in agnelli sacrificali. Mentre nel ventre la sacralità della vita prende forma, la mente delle suore così duramente provate viene sopraffatta dalla vergogna e dal senso di colpa, anche se colpa non c’è. L’aiuto arriva dal mondo laico, precisamente da una dottoressina della Croce Rossa che cerca di restituire alle suore il loro equilibrio interiore in modo da mutare la potenza distruttrice in una chance di redenzione. Per le suore il futuro è segnato: dovranno accettare la maternità appellandosi alle virtù teologali chiamate fede e speranza.
Per rigore formale e profondità di contenuto, Agnus Dei richiama i due maestri del cinema che hanno maggiormente indagato sulle ragioni dell’eterno conflitto fra bene e male: Ingmar Bergman, svedese, e Robert Bresson, francese. Due registi assai diversi per concezione e visione del mondo. Il primo, libero pensatore eppure agitato da grande tensione morale; il secondo, cattolico dichiarato e dunque obbligato a interrogarsi sul mistero dell’anima. In questa ricerca esistenziale del senso profondo della condizione umana, i due registi ci parlano di vita e di morte ma soprattutto di quella nemesi chiamata Male. Di Bergman basta citare Il settimo sigillo e la leggendaria partita a scacchi del cavaliere medievale con la Morte, Luci d’inverno sui dubbi e la crisi di un pastore luterano, Come in uno specchio in cui un dio-demone si nasconde sotto mentite spoglie, e ancora Il silenzio, che descrive un’umanità condannata all’incomprensione e alla solitudine. Di Bresson ricordiamo almeno Au hasard Balthazar, dove un asino conosce e subisce l’ingiustizia degli uomini, e Mouchette, l’adolescente braccata dalla cattiveria sino a decidere di togliersi la vita perché, sentendosi abbandonata dalla divina grazia, non ha più la forza di sopportare la brutalità dell’uomo e lo smarrimento del mondo.
Agnus Dei
Ci piace infine ricordare, con un volo pindarico verso il cinema del terzo mondo, il regista brasiliano Glauber Rocha, che mette nel mirino dei suoi film, di spiccato impianto politico, gli effetti devastanti dell’oppressione sociale. Le sue due pellicole più importanti, Antonio Das Mortes e Il dio nero e il diavolo biondo, nel cantare il folclore delle popolazioni contadine, denunciano la conflittualità fra i poveri campesinos e gli arroganti latifondisti (in pratica Rocha racconta la lotta di classe in terre dove essa è più estrema), le superstizioni e gli aspetti primitivi che resistono a un progresso che è di là da venire. Da sottolineare il coraggio del regista nel trattare i tabù della cultura sudamericana che si lascia sopraffare e comandare da giunte militari i cui strumenti di persuasione sono le vessazioni e la tortura. Rocha ebbe qualche riscontro in Europa negli ambienti della contestazione giovanile sessantottesca, ma il suo cinema, proiettato nelle sole sale d’essai ed escluso dai circuiti commerciali, fu visto da pochi e presto dimenticato. Questo nostro accenno ha la presunzione di recuperarlo alla memoria.