Da Alice a Alice

Quando la macchina da presa si tinge di rosa

di Ivan Mambretti

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La pioniera del cinema

Non che il cinema delle origini potesse fare a meno delle donne. Erano ammesse, certo. Purché non pretendessero di accedere a piani troppo alti.

Le si impiegava come segretarie d'ufficio, portacarte, trovarobe, sarte, parrucchiere. Lavori umili, insomma. Prevaleva anche nel mondo dello spettacolo il pregiudizio maschilista (siamo tra fine Ottocento e primo Novecento: il diritto di voto per le donne era di là da venire!). Ma il loro ruolo nella storia del cinema non finì così. Si fecero strada piano piano e quasi sempre con merito. A volte timidamente, ma con la determinazione dei forti, passarono dallo script alle vere sceneggiature, dagli allestimenti scenici al montaggio, dall'amministrazione alla produzione. Le dotate fisicamente diventavano attrici. Le meno appariscenti ma promettenti si avventurarono nella regìa. Pioniere dietro la cinepresa che si fecero onore sin già dai tempi del muto. L'esperienza si coniugò alla notorietà, ma di una notorietà effimera che andò calando col tempo. Oggi nessuno più le ricorda. Perché allora non rendere omaggio alla memoria di alcune di loro?

 

Dalla Francia all'America, le pioniere

Il primo caso è emblematico: quello di Alice Guy-Blaché, parigina. In virtù del suo riconosciuto spirito pratico, viene assunta giovanissima come segretaria alla Gaumont, neonata società di produzione dove i fratelli Lumière lavorano sull'elemento meccanico della loro invenzione (sì, il cinema, è bene ogni tanto ribadirlo, nasce in Francia) per superare la staticità della fotografia simulando il movimento. A questo punto scatta il fiuto di Alice, che di fronte a quelle prime meraviglie in celluloide pensa che si possa fare ancora meglio, ad esempio raccontare una storia. Un colpo di genio che le procura le simpatie del capo, disponibile a lasciarle girare qualche sequenza a patto che non dimentichi il suo lavoro ufficiale: la segretaria. Nel 1896 nasce il primo brevissimo (1 minuto!) film di finzione della storia del cinema, La fée aux choux. un fantasy ante litteram che è proprio tutto suo. Ne seguono altri e pare che sia lei stessa ad aver dato il nome ai generi: comico, drammatico, avventuroso, western ecc. Trasferitasi in America, fonda una sua società di produzione: la Solax. Dopo una vita di alterne fortune torna a Parigi e qui morirà alla veneranda età di 98 anni in totale abbandono.

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Lois Weber a Holliwood

Lois Weber, americana del 1879, è la classica provinciale che si trasferisce a New York in cerca di fortuna. Incalzata dalla miseria, si dà da fare accettando lavoretti qua e là, finché un bel giorno del 1905 trova anche lei lavoro alla Gaumont e passa alla storia come la prima donna a girare un lungometraggio: The Merchant of Venice (1914), da Shakespeare. Il suo obiettivo è darsi una tecnica e uno stile filmico e trattare argomenti audaci come il controllo delle nascite (Where are my Children, 1916). È la più importante cineasta del muto americano, accostata per ingegno nientemeno che a Griffith e a DeMille, testimone negli anni Venti della nascita degli studi di Hollywood e del passaggio al sonoro. Come altre colleghe resta in ombra, ma appare sempre più chiaro che una donna regista ha le medesime chance artistiche e intellettuali di un collega maschio. Anzi, proprio in virtù della sua appartenenza al gentil sesso, gode di una sensibilità speciale e di una marcia in più nel trasmettere emozioni.

Dorothy Arzner si specializza prima di tutto nel montaggio (vedi la prima edizione muta di Sangue e arena). L'abilità e lo zelo con cui lavora le aprono le porte della regìa, mestiere che la rende presto una donna tenace e orgogliosa. Nel 1943 abbandona Hollywood per allargare il campo delle sue competenze: teatro, radio, spot pubblicitari. Insegnante di tecnica cinematografica, annovera fra i suoi allievi anche Francis Ford Coppola.

Altro nome di spicco è quello di Anita Loos, che però si limita al solo ruolo di scrittrice-sceneggiatrice, peraltro arguta e assai prolifica (da Intolerance di Griffith, 1916, a Gli uomini preferiscono le bionde, 1928, rifatto nel 1953 con Marilyn Monroe). Venendo a epoche più recenti citiamo Barbara Loden (Wanda, 1970) e Elaine May (Il rompicuore, 1972) fra le eredi più significative della vecchia guardia.
Ida Lupino, attrice inglese di formazione teatrale, trova lavoro nella Hollywood dei primi anni Cinquanta anche come regista e si distingue per notevole piglio nell'analizzare la psicologia femminile in La preda della belva e La grande nebbia, storie di stupri e di violenze. Capostipite delle attrici americane che hanno osato mettersi dietro la macchina da presa, la imiteranno - citiamo a caso - Barbra Streisand (Yentl, in cui celebra le sue origini ebraiche), Jodie Foster (Il mio piccolo genio, sul tema dell'autismo) e Angelina Jolie (Unbroken, biopic dell'atleta olimpionico ed eroe di guerra Louie Zamperini).

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Barbra Streisand in Yentl

 

In Europa: dalle origini ai tempi nostri

Leni Riefenstahl, regista tedesca assai longeva (1902-2003), è celebre soprattutto come autrice di film e documentari di propaganda nazista che le valgono l'amicizia con Hitler. Si affida al gusto figurativo espressionista con le tipiche inquadrature angolate. Titoli di punta: Il trionfo della volontà e soprattutto il kolossal Olympia sui giochi di Berlino del 1936 in cui esalta la superiorità della razza ariana e mostra anche l'espressione di disappunto del Führer quando l'atleta di colore Jesse Owens vince l'oro nel salto in lungo.
Di tutt'altra pasta rispetto alla Riefenstahl sarà Margarethe Von Trotta (ma occorre tenere conto del rilevante salto temporale e culturale: dagli anni Trenta ai Settanta), che in Anni di piombo, attraverso le esperienze di due sorelle che hanno operato scelte di vita diverse (una giornalista, l'altra terrorista), indaga sui presunti suicidi in carcere degli esponenti della banda Baader-Meinhoff, non fidandosi della verità ufficiale nella Germania dilaniata anch'essa da violenze estremiste.

Chantal Akerman, regista belga attiva negli anni Settanta, realizza un lungometraggio che si segnala al Festival di Cannes, Jeanne Dielman, sulla vita disperata di una casalinga, prostituta per disperazione dovendo mantenere, oltre che se stessa, il figlio adolescente. Attiva fino agli anni Novanta, rifiuta il cinema convenzionale per muoversi nell'ambito delle avanguardie, ma conclude la carriera adottando il linguaggio e i canoni della commedia romantica con Un divano a New York, che vede insieme due divi di diversa estrazione come l'americano William Hurt e la francese Juliette Binoche.

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Juliette Binoche in Un divano a New York

Decisamente più quotata Agnès Varda che, ben consigliata dall'amico Alain Resnais, ha a cuore soprattutto le psicologie dei suoi personaggi, che mette in scena con distacco e rigore quasi cronachistico. I suoi capisaldi sono Cléo dalle 5 alle 7, sulla crisi della coppia con evidenti richiami alla Nouvelle Vague, e Senza tetto né legge, in cui una povera vagabonda si lascia morire di freddo in un fosso della campagna francese (film che le vale il Leone d'Oro).

Oggi ci sono registe che si segnalano con un paio di pellicole e che hanno tutta una vita davanti per confermare il loro talento (se c'è). Una è Susanne Bier, che in Dopo il matrimonio e In un mondo migliore manipola robusti contenuti con mano ferma. Un'altra è Anne Fontaine, che dà ottima prova di sé con Agnus Dei, storia di un miracolo laico nella Polonia di fine conflitto. Qui una francesina volontaria della Croce Rossa viene avvicinata da una spaventatissima suora che la supplica di seguirla al monastero dove scopre una terribile verità: un gruppo di suore messe incinte dalle soldataglie dell'Armata Rossa. Anche per la crocerossina è un'esperienza sconvolgente: comprende subito che le cure mediche sono inadeguate ad affrontare la reazione angosciata di quelle poverette, che va dallo smarrimento ai sensi di colpa, dal desiderio represso della maternità alla crisi della propria fede. Rientrata dopo aver fatto il suo dovere, la dottoressa riceverà una toccante lettera nella quale la priora esprime tutta la sua gratitudine e che così conclude: "lei ora riderà, ma secondo noi ce l'ha inviata Dio".

 

Campionesse anglo-sassoni

Jane Campion, sensibile regista venuta dalla lontana Oceania, descrive l'incapacità e l'egoismo del maschio nel capire la mentalità della donna. Da ciò l'atavica e proverbiale subalternità femminile da lei mal tollerata. Un angelo alla mia tavola tratta il disagio della malattia mentale che solo l'amore potrebbe sanare, in Lezioni di piano una donna muta catapultata dalla Scozia in Nuova Zelanda, per poter continuare a suonare il pianoforte, si concede ai giochi erotici di un indigeno. La predilezione della Campion per l'epoca tardo-romantica prosegue con Ritratto di signora, dove un'ereditiera si sente divisa fra gli obblighi di famiglia e la voglia di evasione. Degli anni Novanta è invece Holy Smoke, ancora una volta sugli smarrimenti di una donna incompresa, qui in cerca di una rinnovata spiritualità.

Kathryn Bigelow è la regista che più di tutte nella storia del cinema ha voluto mettersi i pantaloni. Di bella e imponente presenza, ottiene all'inizio dei Novanta i suoi primi consensi con Point Break, action-movie imperniato su un gruppo di rapinatori surfisti, e l'apocalittico Strange Days, in cui descrive con sorprendente efficacia le suggestioni e le paure dell'uomo di fronte alle incognite del futuro. Sempre più agguerrita e "macha" (se ci si passa il termine), surclassa i colleghi uomini in generi dei quali pretenderebbero l'esclusiva come i film di guerra: vince l'Oscar per The Hurt Locker che racconta una missione di artificieri in Iraq, mentre in Zero Dark Thirty, emozionante ricostruzione della cattura di Bin Laden, consacra al rango di diva Jessica Chastain, forse la migliore attrice oggi sulla piazza americana. Infine Detroit, spietata indagine sul degrado delle periferie metropolitane.

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Sofia Coppola

Sofia Coppola, figlia d'arte, cresce sui set di papà Francis Ford, ne apprende arte e tecnica, ma cerca di rielaborarle con sguardo tutto al femminile (al contrario delle due colleghe sopra menzionate): si capisce che, orgogliosamente, punta a vita autonoma. Debutta a Cannes con Il giardino delle vergini suicide, raggelante resoconto di un 'cupio dissolvi' a livello familiare. Cult-movie è Lost in Translation, descrizione dello strano e straniante rapporto fra un attempato pubblicitario e una connazionale neolaureata che casualmente alloggiano in un albergo di Tokyo. Curioso Marie Antoinette soprattutto per la indovinata 'contaminatio' fra costumi settecenteschi e canzoni moderne (la passione e il gusto della Coppola per la musica sono noti ai giovani). Meno convincente L'inganno, sbiadito remake di La notte brava del soldato Jonathan con Clint Eastwood: un uomo chiede riparo presso un collegio di ragazze scatenando invidie e gelosie, per cui decidono di eliminarlo con una cena a base di funghi avvelenati.

 

Da oriente con giusta grinta

L'indiana Mira Nair esordisce con Salaam Bombay, sulle vergogne cui è costretta un'intera generazione di bambini che vivono la condizione subumana delle periferie. Meno deprimente Monsoon Wedding, dove prevale un clima di festa in vista delle nozze in una famiglia benestante. Con la collega Gurinder Chadha, regista di Matrimoni e pregiudizi, libero adattamento del romanzo di Jane Austen, la Nair si può dire fondatrice del boom del cinema indiano battezzato allusivamente Bollywood (fusione di Bombay e Hollywood), a voler significare la voglia di emulare il cinema americano anche sul piano dello sfarzo.
Samira Makhmalbaf, figlia di Moshen (il regista di Viaggio a Kandahar), gira fra i monti del Kurdistan devastato dalla guerra tra Iran e Iraq l'originale Lavagne, in cui una équipe di maestri, ognuno con la propria lavagna, va in cerca di allievi in una terra dove la lotta per la sopravvivenza conta molto più che imparare a leggere e a scrivere.
La regista e attrice libanese Nadine Labaki dirige e interpreta il suo primo lungometraggio, Caramel, ambientandolo in un salone di bellezza. Con E ora dove andiamo? racconta invece l'arretratezza del suo mondo d'origine usando non il piagnisteo ma i toni leggeri della commedia.

e ora dove andiamo 1280E ora dove Andiamo, di Nadine Labaki 

 

... e per finire l'Italia

La prima donna regista italiana si chiama Elvira Notari e si segnala per prolificità. Gira infatti, tra il 1906 e il 1929, oltre 60 lungometraggi e centinaia tra corti e documentari. Intuisce presto l'impatto visivo che potrebbero avere i romanzi d'appendice e sceglie spesso Napoli come location. Possiamo definirla un'antesignana della sceneggiata (storie d'amore e malavita), che avrà in Mario Merola il suo più significativo esponente. Al di là della finzione, i film della Notari fungono anche da interessanti documenti su usi e costumi del meridione, come "Il pranzo dei poveri" in mezzo alla strada in È piccirella.

Negli anni Sessanta esordisce Lina Wertmüller con I basilischi, variazione sul tema dei "vitelloni" o dei "delfini", incisivo spaccato in bianco e nero del nostro profondo sud. I basilischi sono i giovani meridionali che aspirano al salto di qualità sociale e guardano con interesse ai modelli della borghesia del nord. Ma il successo popolare arriva con Mimì metallurgico ferito nell'onore, satira della diversa cultura che distingue i "terroni" dai settentrionali. La Wertmüller ribadisce la chiave comico-grottesca della sua narrazione in pellicole dai titoli chilometrici come Film d'amore e d'anarchia, ovvero: stamattina alle 10 in via dei Fiori nella nota casa di tolleranza..., oppure Notte d'estate con profilo greco, occhi a mandorla e odore di basilico, Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto.

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Mariangela Melato e Giancarlo Giannini in Mimì metallurgico

Liliana Cavani si fa notare con un San Francesco televisivo in cui la solita patina agiografica cede il passo alle mode "contestatarie" come metafora del dissenso anche all'interno della chiesa cattolica (un film che sarebbe piaciuto a Papa Francesco). Un discorso contro i condizionamenti del dogma prosegue sul piano teologico-scientifico con Galileo: si sa quanto acuto fosse nel Seicento, secolo della Controriforma, il conflitto fra scienza e religione. L'eccessiva sicurezza nell'affrontare le contraddizioni del sistema inducono la Cavani allo scivolone di I cannibali, maldestra imitazione di Pasolini, finalizzato a dimostrare la voracità con cui il potere fagocita i sessantotteschi aneliti di ribellione. Con Il portiere di notte compie un'incursione sadomaso nei meandri più oscuri del nazismo rappresentando il 'topos' cinematografico e letterario dell'ambiguo rapporto fra vittima e carnefice. Velleitario anche il tentativo di raccontare la contorta love story fra il filosofo Nietzsche e la fascinosa collega Lou Salomé in Al di là del bene e del male. Con l'avanzare dell'età le opere della Cavani (attiva anche in teatro) si fanno più convenzionali: dirige senza infamia e senza lode La pelle da Malaparte e condivide con Riccardo Muti e il soprano Tiziana Fabbricini il successo di una "Traviata" scaligera giovanile.

Certo, le registe di oggi sono avvantaggiate rispetto alle pioniere, non solo per i vistosi passi avanti compiuti dalle donne sulla via dell'emancipazione, ma anche perché la gavetta, più che fra le scartoffie e le frenesie dei dietro le quinte, si fa con gli spot tv e i videoclip. Le sorelle Francesca e Cristina Comencini, condizionate dal linguaggio televisivo, offrono un cinema al femminile che punta sugli affetti, le ansie, i sentimenti, le frustrazioni della donna calata nelle complessità della società contemporanea. Non a caso Cristina sceglie di portare sullo schermo il best-seller di Susanna Tamaro Va' dove ti porta il cuore e adombra persino il dramma dell'incesto all'interno di una famiglia borghese in La bestia nel cuore. Francesca affronta invece il cinema corale con A casa nostra sulla cosiddetta Milano da bere e con Mobbing descrive un fenomeno aziendale del quale oggi più nessuno parla. Difficile pensare che le due sorelle si sarebbero fatte strada con le loro gambe se non avessero un cognome così importante come quello di papà Luigi, maestro della commedia all'italiana negli anni del boom economico. Ciò vale anche per chi si è messo dietro la cinepresa con cognomi altrettanto ingombranti come Maria Sole Tognazzi, Simona Izzo, Asia Argento, Laura Morante. Attrice fortunata dietro la cinepresa si rivela Valeria Golino con due film minimalisti presentati entrambi a Cannes: Miele, che parla dell'assistenza domiciliare ai malati terminali, e Euforia, altro film sul male di vivere.

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Valeria Golino

Wilma Labate, con La mia generazione, denuncia le lacerazioni sociali negli anni di piombo mettendo a confronto un terrorista e un carabiniere in viaggio da Palermo a Milano a bordo di un furgone blindato. Francesca Archibugi debutta con due pellicole di successo (poi si è un po' persa): Mignon è partita e Il grande cocomero. Il primo, che racconta l'arrivo da Parigi di una giovinetta carina ma snob, ospite presso parenti romani, è una commediola con qualche spunto di riflessione sui turbamenti adolescenziali in un contesto di incomprensioni fra mentalità differenti. La Archibugi affronta poi le problematiche della disabilità in Il grande cocomero. Roberta Torre fa del suo film d'esordio, Tano da morire, un mix fra musical e sceneggiata napoletana, la cui dimensione fantastica e semi-infantile lo rende piacevolmente simile a una recita scolastica. La milanese Marina Spada, in Come l'ombra, ritrae la donna in una metropoli ancora impreparata ad accogliere gli immigrati, mentre col docu-film Poesia che mi guardi racconta la vita della sensibile poetessa milanese Antonia Pozzi, estranea e insofferente del suo tempo (siamo in piena era fascista) tanto da lasciarsi morire a soli 26 anni di età, in un gelido prato presso l'abbazia di Chiaravalle. Susanna Nicchiarelli, con Cosmonauta, indaga sull'ideologia comunista negli anni Cinquanta-Sessanta. Più interessante Nico, 1988, biopic della ex musa di Andy Warhol e cantante dei Velvet Underground, ormai invecchiata e imbruttita (per la cronaca, Nico ebbe una particina nel capolavoro di Fellini La dolce vita).

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Alice Rohrwacher (Elle)

Abbiamo cominciato questa nostra incursione nella storia delle regìe in rosa con un'Alice (Alice Guy) e concludiamo con un'Alice: Alice Rohrwacher. Che si è imposta con tre soli film, facendo dimenticare di essere la sorella meno famosa di Alba. Tre opere minimaliste ma intense, soprattutto molto low cost, ma che pure riescono a salvaguardare lo specifico filmico portando avanti un cinema misuratamente sperimentale. Tema prediletto: cosa resta in Italia delle nostre radici contadine. Memore della lezione di Pasolini e Olmi, in Corpo celeste descrive il difficile ritorno in Calabria di una famiglia emigrata in Svizzera, in Le meraviglie racconta di una comunità rurale invasa dalla tv commerciale coi suoi concorsi a premi e in Lazzaro felice celebra l'antica cultura contadina come unica possibile fonte di santità.

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