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La storia siamo noi...
Dalla Resistenza ai giorni nostri
di Ivan Mambretti - SECONDA PARTE
Valeria Ciangottini in «La dolce vita» di Federico Fellini, 1960
Come il grande schermo ha raccontato splendori e miserie della Repubblica italiana.
Quel battesimo laico nella fontana di Trevi
Gli anni Cinquanta se ne sono andati lasciando il campo a un decennio ancora più frenetico. Lo inaugura La dolce vita di Fellini. Il regista romagnolo non è d’accordo coi suoi colleghi che continuano a rimuginare il passato (la guerra, il fascismo, la lotta civile, la miseria...). Con La dolce vita sceglie di assecondare le nuove generazioni refrattarie alla retorica e di raccontare l’attualità attraverso le avventure capitoline - con epicentro in via Veneto - del giornalista Marcello Mastroianni, accompagnato dal fotografo Paparazzo (parola poi entrata nell’uso corrente). Il bagno onirico nella fontana di Trevi con la prorompente Anita Ekberg rappresenta il battesimo del decennio. Salotti letterari, ville aristocratiche e antichi palazzi, feste e festini, night e striptease. Alla fine Marcello, ebbro di bagordi, non riconosce la virtù che, in un’alba in riva al mare, lo chiama da lontano. La virtù possiede la freschezza dei sedici anni e ha un nome: Valeria Ciangottini. L’immagine in primissimo piano del suo viso acqua e sapone chiude il film: uno dei momenti più alti e toccanti dell’intera storia del cinema italiano. In pieno miracolo economico Fellini ci ammonisce che si va incontro a una vita fatta di illusioni e di inganni, una vita farsesca dove non c’è favola, ma solo il vuoto causato dall’industria dello svago, dal culto del denaro, dall’arroganza dei nuovi farisei, l’automobile come status symbol e la smania del 'sorpasso'. Solo i veri intellettuali se ne accorgono. Come Steiner, che ammazza moglie e figli e si toglie la vita. Nessuno capisce perché, troppo profonde le ragioni. Ma il mago Fellini vuole suonare il campanello d’allarme sulle insidie del consumismo, del capitalismo incontrollato e del crollo dei valori, allineandosi con un collega e scrittore culturalmente agli antipodi come Pasolini, cantore delle borgate romane (Accattone, Mamma Roma, Una vita violenta…), affollate di poveracci dei quali auspica il riscatto. Al tema dell’incomunicabilità nella società di massa si dedica invece Michelangelo Antonioni (L’avventura, La notte, L’eclisse).
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Alla memoria del petroliere Enrico Mattei misteriosamente caduto nei cieli padani, Francesco Rosi dedica Il caso Mattei con Gianmaria Volontè. La frana del Vajont è un’altra tragedia italiana raccontata dal regista Renzo Martinelli in Vajont. Marco Tullio Giordana accenna all’alluvione di Firenze del ‘66 in La meglio gioventù mentre in Romanzo di una strage indaga su Piazza Fontana. Giordana è già autore di Maledetti vi amerò, titolo illuminante per capire come il Sessantotto abbia infuso in chi lo ha vissuto da vicino un sentimento di amore-odio che l’andar degli anni trasformerà, complice la nostalgia canaglia, in un contenitore di affettuose rimembranze.
Ed eccoci ai Settanta. Anni di piombo, di rabbia, di aneliti libertari, di sesso droga e rock’n roll, di sassaiole e degli echi cupi della P38 fra estremisti di destra e di sinistra. Il sano pacifismo sessantottino sfuma all’orizzonte. Se c’eravamo tanto amati, ora le cose si ribaltano. Nei primi anni del boom Modugno da Sanremo ci faceva volare, ma oggi si può solo sognare. La classe operaia vada in paradiso, col 'libretto rosso' di Mao la Cina è vicina, la 'sporca guerra' nel Vietnam è divisiva anche in casa nostra. Si strutturano intanto cellule terroristiche. E si apre una delle pagine più dolorose della nostra storia, maturata in un clima di disordine politico e sociale. Primavera 1978, rapimento e uccisione di Aldo Moro. A questo triste accadimento il giornalista Sergio Zavoli dedicherà un’inchiesta televisiva a puntate, La notte della repubblica, dove a distanza di anni alcuni brigatisti parleranno. Sulla vicenda dello statista DC si cimenta più d’un regista. Il primo è Giuseppe Ferrara, che in Il caso Moro con Gianmaria Volontè compie un’analisi scrupolosa su quei terribili 55 giorni. Ferrara è un regista incline alla cronaca. Suoi sono pure 100 giorni a Palermo sull’uccisione del generale Dalla Chiesa, I banchieri di Dio sul caso Calvi, e Giovanni Falcone. Ancora su Moro è Buongiorno, notte, film volutamente inverosimile di Marco Bellocchio, dove il leader DC, interpretato da Roberto Herlitzka, scappa dai carcerieri e se ne va a spasso per le strade di Roma alle prime luci dell’alba. All’uccisione, avvenuta due anni dopo, del presidente della regione Sicilia Piersanti Mattarella dedica un film-inchiesta Aurelio Grimaldi, Il delitto Mattarella, inquietante parata di politici corrotti, mafiosi, spie, appalti truccati, banda della Magliana, comunisti buoni e neofascisti cattivi, un Andreotti muto, sgraziato, luciferino. Insomma, troppa carne al fuoco che finisce per restituirci un’operina secondaria, didascalica, senza spessore. Chissà se è piaciuto al fratello Sergio...
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Con Il muro di gomma Marco Risi, figlio di Dino, affronta un altro mistero d’Italia: Ustica, 1980. Un cronista del Corriere per dieci anni segue le indagini sull’incidente aereo costato la vita a 81 persone. Un film che denuncia un gran bisogno di verità e di giustizia, valori cancellati dal libro delle speranze degli italiani.
Inizia intanto un periodo di profonda crisi per il cinema non solo di casa nostra. Crisi che alimenta rimpianti del bel tempo che fu, come le lunghe vacanze al mare e ai monti e i flirt descritti dai cinepanettoni dei Vanzina. Ad esempio Sapore di mare rievoca la felice stagione dei musicarelli con Gianni Morandi, Little Tony, Al Bano e Romina. Si affermano i nuovi comici provenienti dal cabaret e dalle tv commerciali: De Sica jr., Boldi, Buzzanca, Montesano, Alvaro Vitali. Tutti pazzi per le docce della Fenech. È il cinema stracult, come il critico Marco Giusti definisce le commediole scollacciate degli anni Settanta-Ottanta. Comincia a farsi stantia la macchietta di Fantozzi, l’impiegato frustrato partorito dalla mente di Paolo Villaggio. Carlo Verdone fa il borghese raffinato, Roberto Benigni fa il poeta, Checco Zalone è il più stralunato di tutti.
L’edonismo reaganian-berlusconiano ci fa sperare in un ritorno ai migliori anni della nostra vita. Il Cavaliere di Arcore stimola persino il rancoroso estro di Nanni Moretti, che gira il profetico Il caimano sulle storture della giustizia italiana e più in generale sui vizi della politica. Ed è sempre Moretti a documentare, indignato, i trionfi sul Po della Lega di Bossi in Aprile, dove peraltro pronuncia anche lo storico appello a D’Alema: «Di’ una cosa di sinistra!». Il film in due parti Loro di Sorrentino si chiude con una velata assoluzione del personaggio Berlusconi che, come l’araba fenice, risorge puntualmente dalle ceneri per scuotere il sonno dei partiti.
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Un’assoluzione per Craxi arriva da Gianni Amelio, che in Hammamet racconta gli ultimi mesi dell’esilio tunisino del segretario del garofano scandagliando la psiche di un uomo amareggiato, depresso, tormentato dai ricordi, che vuole convincersi che a Tangentopoli ha fatto da capro espiatorio. Il cinema non dimentica neanche Berlinguer. Lo tratta con ironia Benigni in Berlinguer ti voglio bene. Lo tratta con affetto Walter Veltroni nel documentario Quando c’era Berlinguer indugiando sulla sofferenza del leader comunista durante il comizio di Padova che gli fu fatale.
Tre temi della contemporaneità: migrazio, tecnolgia, lavoro
Trovare le caratteristiche salienti del cinema italiano contemporaneo è difficile. Di certo sono finiti i tempi di quando andare al cinema era l’unico svago e un piacere a basso costo. Oggi l’industria del divertimento è variegata e tentacolare. Gli autori ci sono, ma manca loro il sostegno coraggioso di imprenditori e produttori. I film, pur non privi di idee, sono 'piccoli', girati in casa, senza spettacolo, privi dello specifico filmico. La prima fase del terzo millennio si articola in tre grandi questioni: il fenomeno migratorio, l’invasione della tecnologia e il tema del lavoro. Il cinema italiano raccoglie la triplice sfida realizzando opere quasi mai di alto livello ma pur sempre rappresentative delle nuove tendenze. Non possiamo che fare pochi esempi.
Sui migranti la narrazione per immagini non si risparmia. Obiettivo principale è rispettare la loro dignità insistendo sull’integrazione. In Pummarò, prima prova di Michele Placido come regista, un ghanese neo-laureato è in cerca del fratello, che lavora nella raccolta di pomodori ma è braccato dalla polizia e dalla camorra per talune sue intemperanze. Qui l’Italia è vista come falsa "terra promessa" dove vigono razzismo e caporalato. Gran fatica nei campi e umiliazioni per ottenere il permesso di soggiorno, mentre avidi approfittatori e teppisti dal coltello facile la fanno da padroni nel mondo della droga e della prostituzione. L’ordine delle cose di Andrea Segre si sviluppa in una dimensione più ampia. Un funzionario del ministero specializzato in missioni internazionali riceve l’incarico di affrontare la piaga dei clandestini fra Italia e Libia. Le tensioni interne del dopo Gheddafi lo costringono a fare la spola fra stanze del potere, dove riceve ordini equivoci, e centri di accoglienza, dove verifica le condizioni indecenti dei clandestini. La sua situazione personale si aggrava quando infrange la regola di mai rivolgere la parola ai migranti. Aiuta infatti una donna somala che vorrebbe scappare per raggiungere il marito in Europa. È un tipico caso della ragion di stato che contrasta con lo spirito umanitario.
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La tecnologia. A intuire certi suoi aspetti inquietanti è Donatella Maiorca col film Viol@, il nickname di cui una donna si serve per provare l'ebbrezza del sesso virtuale. Si connette con un misterioso interlocutore che finisce per manipolarle la mente sia davanti al monitor che nella vita reale. La donna si annulla in questo gioco perverso e alla fine scova l’abitazione dell’uomo. Vi si introduce per scoprire che si tratta di un nerd goffo, asociale, evidentemente tarato.
Più scanzonato il film di Paolo Genovese Perfetti sconosciuti che affronta le insidie del cellulare. Durante una cena in compagnia, i commensali decidono per scherzo di deporre il telefonino sul tavolo per rendere visibili e ascoltabili gli sms che arriveranno nel corso della serata. Colpo di scena: notifica dopo notifica il clima di reciproca simpatia si incrina mettendo in risalto le ipocrisie su cui si reggono le loro relazioni. Ma nel film l’atmosfera e i toni sono tutt’altro che amari e sembra di essere tornati alla commedia all’italiana che aveva proprio la caratteristica di raccontare cose serie col sorriso. Come in Tutta la vita davanti di Paolo Virzì, dove una laureata finisce in un call center controllato da padroni che mimetizzano lo sfruttamento in un finto clima di entusiasmo. Virzì è un regista spiritoso che riesce, come Genovese, a raccontare con levità un dramma del nostro tempo: l’instabilità del lavoro. Non dissimile la chiave spassosa con cui il giovane Sydney Sibilia tratta il tema in Smetto quando voglio, dove un gruppo di trentenni patiti di tecnologia ma disoccupati mette a frutto le proprie conoscenze (che spaziano dal latino alla neurobiologia!) per sintetizzare una nuova sostanza stupefacente e ricavare profitto dalle vendite.
Tutta la vita davanti, di Paolo Virzì - guarda il trailer
Un epilogo
A fronte dei film citati, va detto che tutto sommato basterebbero due soli titoli per raccontare la storia dell’Italia repubblicana fino agli albori del terzo millennio: C’eravamo tanti amati di Ettore Scola e La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana.
Il primo, ironico e crepuscolare, è dedicato alla memoria di Vittorio De Sica. Tre amici, tre storie. Si conoscono partigiani in montagna e affrontano con ottimismo il dopoguerra e il boom economico incontrandosi a più riprese per lamentarsi dei sogni infranti del Sessantotto. Solo uno dei tre è stato baciato dalla fortuna, ma non ha il coraggio di confessare che ce l’ha fatta grazie a intrallazzi vari e a un matrimonio di convenienza.
In La meglio gioventù quasi mezzo secolo di storia passa attraverso le vicende di una famiglia borghese. Durante l'alluvione di Firenze l’incontro fra Luigi Lo Cascio e Sonia Bergamasco (che suona il pianoforte in un cortile pieno di masserizie) dà inizio alla saga familiare, due film di tre ore ciascuno, che dalla Torino degli anni di piombo ci traghetta verso l’Italia di Tangentopoli. Un affresco per descrivere l'evoluzione dei costumi, i rapporti familiari, i mutamenti della politica. Un intreccio impreziosito dalle dolci note di Astor Piazzolla.
Al lettore desideroso di apprendere dal cinema anche la parte del Novecento che precede la nostra storia, consigliamo di vedere (o rivedere) un altro film-fiume diviso in due parti: Novecento di Bernardo Bertolucci, che dagli albori contadini del secolo scorso ci traghetta nel clima festoso della liberazione. Da dove appunto prende le mosse C’eravamo tanto amati.