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Un acre odore di zolfo
Spirito e materia, divino e carnale, un filo sottile che rovina l'uomo
di Ivan Mambretti - PRIMA PARTE
Inferno, 1911, foto: mymovies.it
«Le condizioni climatiche dell’infernosono certamente sgradevoli, ma la compagnia dei peccatori credo che sia allegra e impareggiabile». Oscar Wilde
L'inferno, luogo di dannazione eterna per le anime di coloro che hanno peccato sulla terra. Il pensiero dell’oltretomba impressiona l’uomo dai tempi più antichi. E se ci accomuna tutti una medesima concezione dell’inferno è colpa della fertile e ingegnosa mente di Dante, che ha influenzato non solo studenti e studiosi, ma i tanti autori di capolavori d’arte che hanno saputo armonizzare al meglio valenza estetica e messaggio morale. Vale anche per il cinema, a partire dal muto. Il film Inferno (1911), realizzato da un team di sconosciuti cineasti italiani (Francesco Bertolini, Giuseppe De Liguoro e Adolfo Padovan), descrive la prima cantica della Divina Commedia con una serie di 54 ‘tableaux vivants’ ispirati alle illustrazioni di Gustave Dorè. Prodotto dalla Milano Films, fu un’impresa titanica in un’epoca in cui raramente una pellicola superava la durata di 15 minuti (in questo caso un’ora circa!).
La scala di Satana (1929), noto in Italia come Sette passi verso Satana, del danese Benjamin Christensen, narra la vicenda di un giovane che sogna di fare l’esploratore in Africa. Lo trattiene però la fidanzata collezionista di pietre preziose, in dubbio che qualcuno voglia trafugare i valori di famiglia. Nel tentativo di smascherare il ladro, la coppia viene catapultata in una realtà spaventosa dove fra sussurri e grida la fanno da padroni feroci aguzzini, nani e scimmie. Il tutto sotto la vigilanza di tale Mr. Satana.
La bella e il musico discendono agli inferi
Ma il cinema giunge buon ultimo a trattare la materia infernale. Già ci ha pensato da par suo la mitologia greca soprattutto dando vita al mito di Orfeo ed Euridice, innamorati colpiti da mala sorte. Lei muore per il morso di un serpente nel giorno delle nozze e lui scende nell’Ade a cercarla per riportarla a casa, alla condizione-capestro posta dagli dei: non dovrà mai volgersi a guardarla durante il viaggio di ritorno. Ma il richiamo dell’amore è così forte che non sa resistere e la punizione divina è terribile: Euridice precipita di nuovo nelle oscure profondità infernali e stavolta per sempre. Il mito come metafora della vita: per raggiungere i propri scopi, troppo spesso siamo costretti a sfidare la paura dell’ignoto, il dolore fisico, le pene dell’anima, e non è detto che “andrà tutto bene”. Diceva Jim Morrison: «Non volevo nascere e sono nato, non volevo vivere e sto vivendo, ma quando morirò andrò in paradiso perché l’inferno è qui». Paradossale ma giusto. Non c’è bisogno di essere sottoterra per conoscere la paura, le fiamme, le tenebre, la sofferenza propria e la disperazione altrui.
La figura di Orfeo è stata più volte portata sullo schermo, ma si è sempre preferita una collocazione moderna. Primo esempio è l’Orfeo (1950) di Jean Cocteau. Attraverso uno specchio della camera da letto, il protagonista si cala nel regno dei morti dove si innamora di una principessa che rappresenta la Morte. Una trama complicata fra motociclette, automobili e brulicanti caffè di Parigi, in cui l’elemento mitologico perde completamente di peso. Cocteau, regista vicino all’esistenzialismo, ci guida verso una riflessione sull’uomo e l’amore, sulla morte e la poesia, sull’arte e il sogno dell’immortalità. Temi da lui ripresi in altri due analoghi film (Il sangue di un poeta e Il testamento di Orfeo) in modo da formare una trilogia.
Più scanzonato e pittorico Orfeo negro (1959) di Marcel Camus. Qui Orfeo è un giovane tranviere di Rio de Janeiro che ama cantare e suonare la chitarra. Tra i ragazzini circola la voce che siano le sue note a far sorgere il sole ogni mattina. Quando la graziosa Euridice si presenta al carnevale, Orfeo, pur già legato sentimentalmente a un’altra donna, se ne invaghisce. Spaventata dalla maschera della Morte, Euridice si rifugia nel deposito dei tram. Orfeo, sopraggiunto, accende le luci e disgrazia vuole che un corto circuito folgori la poveretta. Allora lui la porta tra le braccia fin sulla collina, ma la fidanzata vera, in un raptus di gelosia, li fa precipitare entrambi. Un ragazzino si impadronisce della chitarra di Orfeo per suonare a sua volta all’alba sulla collina e ora è lui, magicamente, a far spuntare il sole! Oltre all’esotismo dei paesaggi e al folklore del carnevale, il film è rimasto famoso per la colonna sonora, che si sviluppa a ritmo di samba e bossa nova.
Un Orfeo cinematografico ligio alla tradizione è invece quello del regista svizzero Claude Goretta, che nel 1985 filma l’opera omonima di Monteverdi, certamente memore della lezione di Ingmar Bergman che una decina di anni prima portò sullo schermo Il flauto magico di Mozart in versione rigorosamente teatrale. Goretta recepisce un happy end tutto barocco: per volontà di papà Apollo, il citaredo Orfeo sale verso un cielo superstellato, dove può godere dell’iconica e luminescente sposa Euridice. Film estetizzante, più adatto ai melomani che ai cinefili.
Faust e il patto col diavolo
Facciamo un balzo in avanti nel tempo per incontrare un personaggio della letteratura ottocentesca in grado di formare con Orfeo un binomio infernale, ma contrastante per forma e sostanza. Si tratta di Faust, creatura cupamente fascinosa, di connotazione romantica, la cui vicenda si presta a molteplici 'variazioni sul tema'. Fra i primi cineasti a comprenderne le potenzialità filmiche c’è il mago Georges Méliès, che gira quattro brevi film a volte impersonando lui stesso Mefistofele tra fumi e fuochi, loschi ceffi e danzatrici invasate. La storia è nota. Lo scienziato Faust, ormai al tramonto dell’esistenza, si impegna a consegnare la sua anima a un misterioso visitatore in cambio del recupero della giovinezza. Poi tutto precipita in un fantasmagorico caleidoscopio di orribili immagini in bianco e nero, figure inquietanti e stravaganti forme geometriche a punta, simboli di un mondo ostile. Nel finale l’anima di Faust è inghiottita da nera nebbia mentre Mefistofele, padrone della situazione, dispiega due enormi ali di pipistrello. Altra scena clou quella in cui Margherita, donna amata da Faust, chiede perdono a Dio per il suo peccato d’amore mentre il demonio fa di tutto per distrarla dalle preghiere. Margherita in ginocchio e Mefistofele in piedi si rubano la duplice scena: l’interno della chiesa illuminato da tinte calde e l’esterno freddo, statico, buio. Facile il confronto con gli allestimenti di maestose opere liriche dell’Ottocento di compositori quali Weber, Gounod, Berlioz, Boito... Facile anche l’associazione con Il ritratto di Dorian Gray (1945), capolavoro di Oscar Wilde sull’umano anelito all’eterna giovinezza, che annovera la non ingloriosa versione cinematografica dello sconosciuto regista Albert Lewin.
Altri registi si sono cimentati col Faust, ma quello del botto porta la firma di un maestro come W. F. Murnau, con una riuscita simbiosi tra espressionismo tedesco e concretezza hollywoodiana in una ardita sintesi fra Goethe e Marlowe. Faust (1926) è un poema metafisico che gioca col fantasy guardando al futuro e allineando visioni, specchi, bambini in girotondo, duelli, elisir, passeggiate sulle nuvole. Il tutto fra simbolismi a getto continuo e prodigi tecnologici come le dissolvenze e le sovrimpressioni, illusioni ottiche, suggestive riprese dal basso, trucchi innovativi. Nei primi fotogrammi i quattro cavalieri dell’Apocalisse (guerra, pestilenza, fame e morte) riducono Faust a figura patetica, quasi a dire: cosa possono le tue conoscenze di fronte alla forza incontenibile del Male? Non sei tu forse un banale oggetto del contendere tra l’angelo buono e l’angelo cattivo? Un burattino in balìa di Dio e del Demonio? Faust rappresenta l’uomo che perde il favore divino vendendosi al diavolo per ottenere garanzie immediate (un argomento sempre attuale).
Da Murnau in poi, i Faust 'si modernizzano'. Si cerca di privilegiare non più le seduzioni impressionistiche ma l’aspetto intellettuale, con relativi agganci alla storia e alla politica. Ad esempio il regista francese Renè Clair, in un periodo in cui è ancora assai vivo il ricordo della tragedia di Hiroshima, allude addirittura a un Faust in possesso di una testata nucleare nel film La bellezza del diavolo (1950). Ma lo scienziato è deluso da una carriera priva di soddisfazioni ed ecco allora che si fa avanti il maligno a offrirgli una seconda chance, appunto il ritorno alla giovinezza. Significativa la scena in cui il Faust giovane e il Faust anziano discutono se valga o no la pena di accettare un compromesso così definitivo. Il doppio Faust ci insegna che ognuno di noi possiede un lato faustiano e uno mefistofelico, divisi da un filo sottile che è la causa prima dell’umana rovina.
In Mephisto (1981) di Istvan Szabo un attore di prosa plaude all’ascesa al potere di Hitler per trarne vantaggi personali. Ma le atrocità naziste porteranno l’uomo negli abissi più infami dove tace, sconfitta, la coscienza. Cinema, teatro e mito si fondono in un equilibrio su cui poggiano potere e arte, servilismo e talento, senso etico e bellezza.
Infine il Faust del terzo millennio, quello di Aleksander Sokurov, regista di nicchia. Il vecchio alchimista Faust vive di ricordi e di rimpianti attirando la curiosità del demonio, che si presenta in veste di usuraio. Faust accoglie lo scambio che gli propone lo strano visitatore nella speranza di incontrare Margherita, l’antico amore. Il regista russo lavora molto sulla sessualità, sulla repulsione, sul conflitto tra spirito e materia, tra divino e carnale. Sokurov rilegge la storia alla luce delle problematiche contemporanee pur conservando costumi e arredi d’altri tempi. L’inferno è descritto come un paesaggio roccioso, un ambiente a tinte marcate ma senza contorni, uno scarno affresco di cose mai viste. Sono i mille ingannevoli volti del diavolo, i suoi infiniti corpi. Insomma, un film complesso che ben si addice alla complessità del mondo in cui viviamo.
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[sarà pubblicata il 5 giugno 2021]