Il paesaggio
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Due brani per sognare
Voglia di essere altrove con la musica
Gli occhi degli esseri viventi si rivolgono continuamente verso cose belle, si vogliono nutrire di bellezza, per trasmettere alla mente sensazioni di serenità maggiore, soprattutto in un periodo come questo.
Oggi miliardi di persone nel mondo invece sono costrette ad avere orizzonti limitati, per questo maledetto coronavirus. Assume quindi un’importanza fondamentale ricostruire paesaggi nella mente, viaggiare con la fantasia, tornare con la memoria a panorami vissuti nel passato. Con la nostalgia struggente di chi ora non può uscire di casa, se non per strettissima necessità.
Un ragazzo di quattordici anni nell’estate 1972 incontrò un suo lontano cugino, di qualche anno più vecchio di lui, in una parte d’Italia remota, tra le colline e il mare. Il parente aveva un mangianastri, uno dei primi. Gli disse: «Ascolta questo». Il ragazzo ascoltò con attenzione, il cugino era come se fosse un fratello maggiore.
Con il sottofondo di un delicato accordo di chitarra, il brano musicale iniziava con queste parole: «Quante gocce di rugiada intorno a me, cerco il sole ma non c’è…». Il pezzo era «Impressioni si settembre» della Premiata Forneria Marconi, un brano del 1971. Note fondative, basilari; un pilastro della musica italiana, suonata e cantata migliaia di volte, cover pubblicate e suonate dal vivo da molteplici cantanti e musicisti ma, perdonatemi, tra queste non c’è assolutamente paragone con la versione originale e le versioni successive della PFM. Questo brano è solo della 'Premiata'. Uscito in singolo nell’ottobre 1971, come lato B della «Carrozza di Hans», verrà poi ripreso nel primo album capolavoro di questo gruppo: «Storia di un minuto» del febbraio 1972. Musica di Franco Mussida, ecco il testo, scritto nientedimeno che dal grande paroliere Mogol, insieme a Mauro Pagani:
“Quante gocce di rugiada intorno a me
cerco il sole ma non c’è
Dorme ancora la campagna, forse no
è sveglia, mi guarda, non lo so
Già l’odore della terra, odor di grano
sale adagio verso me
e la vita nel mio petto batte piano
respiro la nebbia, penso a te
Quanto verde tutto intorno e ancor più in là
sembra quasi una mare l’erba
e leggero il mio pensiero vola e va
ho quasi paura che si perda
Un cavallo tende il collo verso il prato
lui sta fermo come
faccio un passo, lui mi vede, è già fuggito
Respiro la nebbia, penso a te
No, cosa sono, adesso non lo so
sono un uomo, un uomo in cerca di se stesso
no, cosa sono, adesso non lo so
sono solo, solo il suono del mio passo
Ma intanto il sole, tra la nebbia filtra già
il giorno, come sempre, sarà.”
Parole bellissime, introspettive, nel bel mezzo di un paesaggio di inizio autunno. Poesia pura.
«Settembre è il mese dei ripensamenti, sugli anni e sull’età, dopo l’estate porti il dono usato della perplessità…» canta Francesco Guccini nella «Canzone dei dodici mesi». E le impressioni di questo settembre, di tutti i settembre della nostra vita, sono accompagnate dalla grande musica PFM. Quello stacco di moog risuona nelle nostre orecchie come le note di una sinfonia del passato, del presente e della prossima stagionale autunnale che arriverà. Perché si aspetta sempre un settembre dopo l’ubriacatura di caldo e di colori dell’estate. Attendiamo sempre il momento di ripiegarci su di noi a riflettere, mentre il clima si fa più fresco e ci permette di ragionare e pianificare il nuovo anno, ritrovandosi nella vita di tutti i giorni, «donne e uomini in cerca di noi stessi».
A settembre, come nel testo, ci troviamo ad osservare un paesaggio che cambia ancora una volta, in montagna si sentono i meravigliosi bramiti dei cervi e nella piatta e interminabile campagna della pianura si 'respira la nebbia', sensazioni incomparabili, così ben descritte nel testo del brano. Non a caso una pietra miliare nella storia del rock progressivo italiano ed internazionale, con una descrizione di un paesaggio fatto di musica e parole che restano indelebili nella memoria di quel ragazzo di quattordici anni, e ogni volta nella vita, ascoltandolo dal vivo o riprodotto, negli anni che passano, il pensiero di quell’antico ragazzo «leggero, vola e va».
Esistono poi paesaggi lontani, sognati per tutta l’esistenza e mai raggiunti. Luoghi remoti e solitari dove fermarsi a pensare una musica, o luoghi vicino casa che possono anche assumere la sembianza di ambienti fatati, mistici, quasi surreali. Così in Scozia, nella mente di un musicista, Ian Anderson dei Jethro Tull, c’è un posto dove trarre ispirazione per una riflessione in musica, tra antiche rovine e freddo mare sconfinato. «Dun Ringill» è un brano dei Jethro Tull del 1978, tratto dall’album «Stormwatch». Dun Ringill sono antiche rovine di una vecchia fortezza nella penisola di Strathaird, sull’ isola di Skye, in Scozia. Un luogo vicino alla dimora dello stesso Ian, Kilmarie House, a pochi passi da questa antica fortezza che per diversi secoli fu anche sede del Clan McKinnon.
Le rovine di Cill Chriosd sull'isola di Skye nella nebbia
Da questa fortezza si diramano rampe che vanno verso l’Oceano Atlantico, a testimoniare per quell’epoca, si parla del XVI secolo, un più facile accesso dal mare a questa costruzione, rispetto a quello dalla terraferma. Anche se le prime pietre in questo luogo circondato da un’aurea di magia pare siano state posate addirittura nell’età del ferro britannica (800 a.C. - 100 d.C.).
Un paesaggio vicino a casa che ha dato l’ispirazione al nostro Ian per uno dei suoi pezzi più eterei e sognanti, ben rappresentato nel video relativo al brano in cui lui canta e suona la chitarra, seduto su uno scoglio della sua Dun Ringill, mentre ogni tanto si rivolge con un binocolo all’orizzonte. Musicalmente il brano è un’iterazione continua, quasi a rappresentare delle onde dell’oceano, con sottofondo di gabbiani. Un paesaggio costiero atlantico scarno, essenziale e un testo difficile da tradurre, criptico come moltissimi dei testi dei Jethro Tull. Ecco un’ottima traduzione del testo che sono riuscito a trovare, dalla rivista «Itullians», del fan club italiano dei Jethro Tull:
“Luce trasparente su un palmo liscio
mentre butto via la giornata
Scivola la notte da un mazzo di carte tagliato
e mette in gioco una carta segnata
Chiama le ore del crepuscolo da una casa celestiale
più alto del maggior offerente
per il trono del buon Signore
Nelle ore piccole ti incontrerò
giù a Dun Ringill
oh, e vedremo gli antichi dei che giocano
lì a Dun Ringill
Attenderemo in cerchi di pietra
fino a quando irromperà la forza
le linee si uniscono in leggera disarmonia
e la ronda che tiene d’occhio la tempesta
crea un concerto di re
sul mare bianco che schiocca
alle calcagna di una dolce preghiera
sussurrata
Nelle ore piccole ti incontrerò
giù a Dun Ringill
oh, e ti porterò senza indugio
lì a Dun Ringill.”
La prima parte del testo, di difficile traduzione letterale, e tutta improntata sul linguaggio del gioco delle carte, forse i tarocchi ad evocare antiche divinità. Poi, riferimenti ai cerchi di pietra, presenti in gran numero in Gran Bretagna. Costruzioni dal probabile significato religioso, sedi di riti e templi della divinità, il più famoso dei quali è il suggestivo, misterioso e famosissimo Stonehenge. Nel testo anche una frase relativa alla «ronda che tiene d’occhio la tempesta», «Stormwatch» del titolo. Pensiamo a questa frase come a una veglia nella tempesta che fermenta e si avvicina, paradigma di riflessioni pensate in un luogo di pace interiore, un vero e proprio paesaggio della propria coscienza rilassata e rivolta all’Assoluto.
Forse, però, il più bel paesaggio è quello che ognuno di noi immagina, quando chiude gli occhi ascoltando il brano preferito, concentrandosi magari nel buio di una stanza; riuscendo a volare, nel breve tempo di quelle note, lontano da quel luogo. In tempi difficili come questi, rimane solo la possibilità di sognare di essere in luoghi in cui si è andati, o si sarebbe voluti andare.