Il tempo
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“Coppie” di John Updike
Da primavera a primavera
di Luca Conca
"Marcia aveva preso l’abitudine di invitarlo, solo lui, Harold, a una nuotata prima di andare a letto, una nuotata senza costume da bagno."
In quarta di copertina nell'edizione italiana di “Coppie”, di John Updike, pubblicata da Guanda nel 2002, si legge : “Anni Sessanta, Tarbox, piccolo villaggio nella provincia benestante del New England. Qui, tra un doppio misto a tennis e una cena a casa di amici, la vita scorre indolente. Questo falso paradiso suburbano, innocente solo in apparenza, cela però un’intricata rete di adulteri e seduzione collettivi che vedono protagoniste alcune coppie di varia provenienza. John Updike esplora, in modo crudo e sottile, facendo assurgere la sessualità a metafora esistenziale, le tensioni nascoste, le nevrosi e le contraddizioni della middle class americana”.
Roger e Bea Guerin, Harold e Marcia Smith, Frank e Janet Appleby, Ken e Foxy Whitman, Piet e Angela Hanema, Freddy e Georgette Thorne; tutte queste coppie vivono una vita fatta ormai di routine, scandita soprattutto dagli impegni e dagli orari dei figli, del lavoro o delle incombenze domestiche.
Sembra che a soli trentacinque anni abbiano già accettato con serena rassegnazione quella che considerano una legge naturale della vita: ogni cosa ha il suo tempo. Dopo gli anni dell’università (sono tutte coppie colte, direi anche sofisticate), dopo gli anni dei flirt e poi degli amori più o meno numerosi, ecco gli anni della famiglia, del matrimonio, dei figli, (chi li ha già fatti, chi li deve fare). Insomma gli anni in cui, forse senza volerlo fino in fondo, si entra in quel tessuto sociale che fa della nostra singola e speciale identità, un mezzo e non più un fine; si sente che è giunto, giustamente, il momento in cui si possono lasciare andare un po’ le cose, ci si può adeguare ad un’idea e ad uno stato di benessere borghese che ridimensiona ambizioni e fregole.
Certo, non per tutti è così, molte coppie creano una famiglia con la piena consapevolezza di iniziare la vera e più importante stagione della loro vita, ma quella progettualità che alimenta le energie e le giornate di quelle coppie, in queste di Tarbox non c’è. Sembra che nessuno faccia davvero ciò che ha desiderato fare; si nominano mariti e mogli con quella stanca abitudine, come se nel nome del coniuge o nel “mio marito”, ”mia moglie” non ci fosse più nessuna eco sentimentale, nessuna complicità ribadita, nessun vero ruolo. Solo, appunto, abitudine. A soli trentacinque anni.
Dei figli nel libro si parla pochissimo, sono appendici, o addirittura ostacoli, anche e perfino seccature. Se ne parla come di qualcosa che c’è, che si trova lì, ma non perché sia stato scelto.
Scrive Updike: “Di notte, ora, quell'estate, quando c’era la giusta marea e i bambini dormivano, Marcia aveva preso l’abitudine di invitarlo, solo lui, Harold, a una nuotata prima di andare a letto, una nuotata senza costume da bagno. E così, al lume della luna, tra edera velenosa e sommacco fiorito, essi s’avviavano a passo cauto sulla percorsa e ripercorsa passerella, con le assi di vario legno che parevano tasti di un piano gigantesco e, sulla cedevole banchina, si spogliavano e rimanevano, marito e moglie, nudi vicini, con la pelle d’oca che avanzava”. Questa è una condizione che attraversa tutto il libro: se i figli dormono, se sono a scuola, se una delle tante amiche li tiene a dormire, allora, si tenta ancora di provare qualcosa, allora quella che sembra un’intimità e un’intesa ancora viva, può spostare di qualche giorno l’inevitabile bilancio.
Come dice ancora l’autore, si pronuncia “Ti amo con nuova enfasi, come se fosse oscurato dall'ombra di un sottaciuto lo stesso”.
Lo riassume benissimo Giorgio Montefoschi nell’introduzione: “Com'erano lunghe le domeniche pomeriggio, a Tarbox, dopo i doppi misti a tennis, le sfide a pallacanestro, quando incombeva la sera – una sera senza distrazioni, trascorsa tra lampade tremolanti e figli capricciosi e resti del pranzo e il giornale letto a metà! E com'erano soffuse d’ansia, com'erano minacciose, quelle cene con tanto alcol, le sigarette, le conversazioni inutili o cattive, gli incontri in cucina, il prosciutto al forno e il salmone, qualche coppia allacciata seguendo il giradischi, i primi ubriachi, qualcuno scivolato in terra – quando neppure «il gioco della verità» o «dell’indovina persone» riusciva a estrarre un briciolo di senso dalle menti annebbiate, dai corpi paralizzati dalla colpa e dal desiderio!”.
Perché "dalla colpa e dal desiderio"? Perché ben presto capiamo, con la lentezza di spettatori ingenui, che i tradimenti, le storie clandestine tra i coniugi delle varie coppie sono la vera trama del romanzo.
Poco importa chi tradisca e con chi, chi abbia iniziato e chi lo abbia fatto solo per “pareggiare”, chi se lo rinfacci e chi invece neghi con ostinazione. Tutti tradiscono con tutti, in una promiscuità che proprio perché limitata a questa cerchia ristretta di amici, ha qualcosa di incestuoso.
Le coppie di Updike tradiscono per non cedere completamente all'infelicità; è questa la più grande paura, la vera prospettiva spaventosa: riconoscere con se stessi che si è infelici e che forse è troppo tardi per essere felici.
In questo senso la prima lettura che io do del romanzo è legata al tempo.
Questi professionisti, tiepidamente presi dal loro lavoro e queste donne, colte ed emancipate e ancora attraenti, si trovano già perduti. Sentono di non avere il reale senso della loro vita davanti, ma solo alle spalle, in un confuso tempo passato, in cui desideri e possibilità ancora muovevano le cose.
Non è il tempo in cui vivono (o perlomeno non solo) a svuotarli, confonderli e indebolirli. È questo ricatto del passato, delle promesse del corpo e della vita che sono state disattese. Le donne e gli uomini del libro, Updike ce li descrive in continuazione, un po’ alla volta, un dettaglio alla volta, nei volti, nei corpi, nei genitali, nei tic, e sembrano tutti ripugnanti. Come se l’autore volesse dirci che anche in quei corpi c’è qualcosa di ormai sfiorito, guastato, perso irrimediabilmente in ciò che è già stato.
John UpdikeEppure (o forse proprio per questo) cercheranno tutti nell'altro un ultimo riconoscimento, un’intensità, nel tentativo di tornare a se stessi.
Tutto questo durerà il tempo di un anno, da primavera a primavera. E non si potrebbe immaginare una circolarità più struggente, perché la primavera con cui si apre il libro è il vero preludio all'agire, alla scelta, all'inganno, così eccitante; la primavera con cui si chiude ha solo la convalescenza dell’accettazione della colpa.
Si torna alle vecchie vite con uno sforzo tristissimo e ormai esausto, ed è difficile persino trovare consolazione in quella ripetitività che prima era così rassicurante.
Utilizzare il romanzo “Coppie”, di John Updike, per fare una riflessione sul tempo e il significato che ha per ognuno di noi potrebbe sembrare inappropriato eppure il tempo ha proprio nel rimpianto un ruolo, anzi il suo ruolo principale.