La bellezza
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Il mostro
di Stephen Crane
di Luca Conca
Pensare alla bellezza per me significa innanzitutto e soprattutto pensare alla sua mancanza, in un viso.
Un’associazione istintiva e banale, certo, ma che ha un suo risvolto più sottile: la bellezza di un volto è anche la sua identità. In questo racconto di Stephen Crane, scrittore americano della fine dell’Ottocento, uno stalliere di colore resta orrendamente sfigurato nel tentativo di salvare il figlioletto del suo padrone da un incendio. Diventa letteralmente un uomo senza faccia, perdendo, nella tragedia, con i suoi lineamenti anche la sua identità.
Stephen Crane nasce nel 1871 a Newark, nello stato di New York, e muore giovanissimo, a soli 28 anni, di tubercolosi. è autore di un famoso romanzo sulla Guerra Civile, Il segno rosso del coraggio ed è considerato uno degli scrittori più innovativi della sua generazione. Innovativo e coraggioso, perché nella sua pur breve produzione letteraria ha spesso scelto quali protagonisti dei suoi racconti, figure ai margini della società, personaggi discutibili, contraddittori, sospesi tra eroismo e depravazione, tra l’accettazione del proprio destino e la volontà di cambiarlo.
Il suo stile unisce un certo naturalismo e impressionismo, tipici della letteratura del periodo, ad una forte connotazione “coloristica”, quasi espressionista. Nella sua prosa infatti, spesso dettagli fisici, paesaggistici, non hanno solo un valore descrittivo, ma assurgono ad un carattere quasi simbolico, attraverso il quale al lettore è affidata una prima e quasi mistica interpretazione degli eventi.
Ecco perché ne Il mostro non ci viene raccontato soltanto un terribile incidente, ma la condanna di un uomo ad un destino di tragedia e di annullamento.
Siamo nella cittadina di Whilomville, nella provincia americana dell’est. Henry Johnson è un nero alle dipendenze del dottor Trescott e di sua moglie. Si occupa della stalla, dei cavalli e del calesse.
La coppia ha un figlio piccolo, jimmie, il quale se ne sta spesso in compagnia dello stalliere; lo guarda lustrare i finimenti dei cavalli, lavare con cura le ruote dei carri. Jimmie, proprio perché ancora piccolo e inconsapevole della distanza tra lui, un bianco, e un uomo di servizio, per giunta di colore, elegge lo stalliere a complice e compagno di giochi, sentendosi vicino a lui nel rispetto e nella devozione che entrambi provano per il dottore.
Una notte, in un’ala della grande casa isolata, scoppia un furibondo incendio. Trescott è fuori a far visita ad una paziente e la moglie si accorge in ritardo delle fiamme. Urla disperata invocando l’aiuto di Henry che pensa subito a salvare il piccolo Jimmie, bloccato nella sua cameretta e intontito dal fumo. Avvolto il ragazzino in una coperta e presolo in braccio, riuscirà a trarlo in salvo, passando dal laboratorio del dottore, ma, stremato dalla fatica e quasi soffocato, cadrà privo di sensi vicino al tavolo da lavoro, ingombro di fiale e preparati medici. Esplodendo, i liquidi incandescenti contenuti nelle boccette si riverseranno sul tavolo e da lì, colando lungo il bordo, sul volto dello stalliere a terra.
Trescott, arrivato alla casa insieme ai primi soccorsi, salverà la vita allo stalliere e lo sottoporrà a lunghe cure ed interventi per ridare al volto una parvenza minimamente umana.
Henry resterà però un mostro, con il volto completamente mangiato dalle fiamme. Il dottor Trescott è la figura più ambigua del racconto. Da una parte non si può non ammirare la grande umanità con la quale tenta di curare Henry dopo l’incidente e ridare all’uomo una vita che sia degna di essere vissuta. Dall’altra non prenderà mai una posizione netta e apertamente critica nei confronti dei suoi concittadini, soprattutto i più illustri (il giudice, il commerciante, i suoi colleghi dottori) che fin da subito si opporranno con forza al suo prodigarsi, considerando il suo sentimento di riconoscenza per lo stalliere, ridicolo, perfino eccessivo; in fin dei conti si tratta solo di un domestico di colore, sostiene la cittadinanza, e il prestare tutte quelle cure ad un uomo ormai irrimediabilmente sfigurato nel volto e nel corpo, non è carità cristiana ma un inutile accanimento, che rischia di far perdere le giuste proporzioni alla brava gente di Whilomville: fosse stato un bianco a ritrovarsi la faccia mangiata dal fuoco, lo si sarebbe anche potuto capire, ma si tratta di un nero. Cosa si pretende, che ci si preoccupi delle ferite di un nero? Della sua identità fisica e sociale?
Eppure Trescott non avrà mai il coraggio, come cittadino, ma lo troverà come medico, e si limiterà a ripetere : «Cosa avrei dovuto fare?... Ha salvato mio figlio…». Perché il nodo di questo breve romanzo, il suo nervo scoperto, sta nel fatto che una volta sfregiato, Henry smette di percepirsi come individuo ed essere percepito come tale da tutti, anche da chi gli era amico.
Con un volto è un negro tollerato dalla comunità, senza volto smette di esistere, se non come mostro, perdendo anche ogni connotazione razziale o di classe.
Stephen Crane La scelta controcorrente e inedita di Crane sta nel scegliere come vittima dell’incendio proprio un uomo di colore, che già vive una cancellazione, si potrebbe dire, della propria individualità, un negato riconoscimento collettivo della sua personalità, ancor prima che della sua fisicità; e in più (ecco la vera novità e quasi la tragica contraddizione) è un bellissimo uomo.
L’autore indugia più volte sull’aspetto fisico di Henry. È un nero di grande bellezza, con un viso di tale perfezione da suscitare invidia e incredulità al suo passaggio:
«Era chiaro da come parlava Henry che lui era un negro di grande bellezza, ed era noto come un faro di luce, uno di peso, e un’eminenza nel sobborgo della città, dove viveva la maggior parte dei negri.”
“Henry si vestì con gran cura. Non c’era bellezza di corte che mettesse più impegno a far toeletta di Johnson.
[…]Quando uscì dalla stanza e si avviò spensierato lungo il viottolo, nessuno avrebbe mai sospettato che in vita sua avesse lavato un calesse».
Quindi la bellezza di Henry è anche la sua unica possibilità di veder riconosciuta una sua dignità: la possibilità, nella comunità di neri e in quella di bianchi, di esistere come individuo, prima ancora che come uomo di colore.
L’incendio, le fiamme, la deturpazione, sono uno sfregio a quella sottile e labile libertà, legata non al suo ruolo o alla sua dedizione al suo padrone o al suo sacrificio, ma al suo volto, ai suoi lineamenti, unico vero tratto distintivo della sua identità.