La montagna
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Il mio Carso
di Scipio Slataper
Il Carso in autunno
Pur amando la montagna, confesso di essermi trovata in grande imbarazzo nell’approcciarmi all’argomento.
la letteratura, contemporanea e non, è piena di opere di autori che trovano rifugio tra le montagne e in esse ritrovano pace e serenità, oppure che descrivono la fatica di adattamento e lo sforzo per la sopravvivenza in un ambiente naturale selvaggio e ostile come simbolo di espiazione e catarsi. E, sinceramente, per quanto possa essere avvincente il tema, a volte mi appare ridondante e non riesco più a leggerne. Senza voler apparire polemica, e senza tuttavia diventare accomodante, premesso che non amo le panchine giganti, le passerelle, i ponti tibetani e in linea di massima la mortificazione dell’ambiente montano ridotto a parco giochi su misura per gitanti festanti, e di contro mi suscitano tristezza le cime estreme da conquistare, le vette da scalare, le tante croci da toccare grondanti di sudore, mi consola il pensiero che esiste una montagna al contrario. È una montagna che non vuole sfide per raggiungere la cima, ma piuttosto invita a toccarne la profondità. È questa, per me, la montagna.
Scipio Slataper
«Vorrei dirvi: Sono nato in carso, in una casupola col tetto di paglia annerita dalle piove e dal fumo. C'era un cane spelacchiato e rauco, due oche infanghite sotto il ventre, una zappa, una vanga, e dal mucchio di concio quasi senza strame scolavano, dopo la piova, canaletti di succo brunastro».
«Vorrei dirvi: Sono nato in Croazia, nella grande foresta di roveri. D'inverno tutto era bianco di neve, la porta non si poteva aprire che a pertugio, e la notte sentivo urlare i lupi. Mamma m'infagottava con cenci le mani gonfie e rosse, e io mi buttavo sul focolaio frignando per il freddo».
Con queste parole, come una professione d’amore, lo scrittore triestino Scipio Slataper dà inizio alla sua unica opera della sua breve carriera : «Il mio Carso».
Nato a Trieste nel 1867, Scipio Slataper, ragazzo eccessivamente sensibile, attento osservatore, soffriva di terribili mal di testa. Era cresciuto troppo presto. Era pieno di sogni. Aveva letto e studiato per troppo tempo, durante la convalescenza dal tifo. La famiglia finì per portarlo dal dottore. Il dottore lo guardò dritto negli occhi: «Dubbioso, severo, quasi maligno. Poi mi proibì la scuola e m'ordinò la vita selvaggia. Avevo vinto». E così trascorse la sua infanzia sul Carso.
In seguito si trasferì a Firenze per studiare e conseguì la laurea in lettere. Tornato a Trieste, ebbe una relazione intensa e tormentata con la giovane Anna Pulitzer, conclusasi tragicamente con il suicidio della ragazza. Scipio, sconvolto, si ritirò ancora una volta sul Carso e qui iniziò a scrivere il 'suo' Carso.
Non è un romanzo e neppure un diario, ma piuttosto un’autobiografia spirituale di tono accesamente lirico. Non di facile lettura, è un diario poetico, aspro e teso, frammentario, diseguale, bello a volte e bellissimo nelle pagine finali, dove prende forma e sostanza il paesaggio interiore dello scrittore, il suo slancio vitale, la sua consapevolezza etica.
Meravigliose le pagine dedicate alla descrizione del paesaggio naturale, che se lette e rilette suonano come una musica. Bisogna trovare il ritmo, può inizialmente sembrare difficile, ma poi ogni parola entra magicamente in un unico e particolare flusso.
L’opera fu scritta nel 1911, riprendendo anche brani composti precedentemente, e fu pubblicata l’anno successivo per le edizioni della rivista fiorentina «La Voce». Slataper senza ordine cronologico e proseguendo per frammenti si fa trasportare da un ricordo all’altro, riportandone dettagli e percezioni sensoriali, perché nulla come un profumo o un sapore possono ricostruire la memoria di una situazione.
L’autobiografia, sebbene discontinua e varia nel registro, ricca di figure retoriche, di termini ricercati, licenze sintattiche, come anche di voci dialettali, segue comunque un suo ritmo perfettamente cadenzato che accompagna il lettore tra descrizioni a volte un po’ artificiose e retoriche, ma estremamente musicali, come un fiume intermittente che attraversa un mondo sotterraneo per riemergere ogni tanto in tempi diversi sull’infanzia, la giovinezza e la maturità.
Il filo conduttore sta nell’avventura esistenziale del protagonista, nato nel Carso e ad esso legato indissolubilmente. Il Carso, territorio aspro e desolato, importante regione storica tanto quanto geografica, landa pietrosa e inospitale, terra contesa, teatro di odi e vendette sanguinose tra popoli che avevano sempre pacificamente convissuto, la stessa terra che descriverà Ungaretti qualche anno dopo, accucciato nelle trincee della collina di San Michele.
Il Carso come meta di ricerca di una purezza legata alla memoria dell’infanzia, e come tale sincera e incorrotta. Come spazio mentale, viaggio interiore.
«Ho ritrovato il mio carso in un periodo della mia vita in cui avevo bisogno di andar lontano».
Piazza Unità d'Italia a Trieste
Il Carso contrapposto a Trieste, in un rapporto dialettico tra natura pura e selvaggia e convenzioni ipocrite e borghesi, come nel titolo originario dell’opera che doveva essere «Il mio Carso e la mia città».
Scipio fanciullo, protagonista della prima parte dell’opera, ha un rapporto diretto, intimo, originario, primordiale, ancestrale quasi, con la propria terra e racconta il Carso come un mistico. Racconta e descrive momenti ed emozioni che si riescono a vivere solo quando si presta attenzione alla natura, utilizzando un dettagliato realismo che caratterizza tutta l’opera.
È una continua rievocazione di immagini e ricordi legati all’infanzia vissuta a diretto contatto con la natura e della quale ha imparato a riconoscerne i ritmi e l’anima tanto buona quanto crudele.
È sul ricordo dell’infanzia carsica che si incentra la narrazione. Luogo di scoperta della vita, palestra di gioia, culla al dolore, invito allo stupore. L’identificazione panica con il Carso e con la natura stessa, sono il seme germinale dello sviluppo etico di Scipio.
«Lunghe ore di calcare e di ginepri. L’erba è setolosa. Bora. Sole. La terra è senza pace, senza congiunture. Non ha un campo per distendersi. Ogni suo tentativo è spaccato e inabissato. Grotte fredde, oscure. La goccia, portando con sé tutto il terriccio rubato, cade regolare, misteriosamente, da centomila anni, e ancora altri centomila».
«Ma se una parola deve nascere da te ― bacia i timi selvaggi che spremono la vita dal sasso! Qui è pietrame e morte. Ma quando una genziana riesce ad alzare il capo e fiorire, è raccolto in lei tutto il cielo profondo della primavera. Premi la bocca contro la terra, e non parlare».
Il giovane Scipio cresce, diventa uomo, e la prima parte de «Il mio Carso» si conclude con la sua discesa dall’amato e fraterno monte Kal e l’approdo in città, dove «nessuno si fida di nessuno, benché tutti salutano tutti».
Da barbaro, termine utilizzato dall’autore con accezione positiva, Scipio diviene studente, giornalista, scrittore, cittadino: «Com’è triste il piccone e la vanga nel terreno battuto della città! Si lavora senza che nessuno vi possa seminare». Più Scipio si stacca dalla sua terra, dal suo Carso, più il rapporto con la realtà si complica e finisce per determinare, nella seconda parte, la salita sul monte Secchieta in Toscana, che rappresenta la successiva ascesi morale. Un luogo che si configura come un nuovo Carso, ma provvisorio. Un preludio al ricongiungimento con la sua amata terra di origine.
Nella terza e ultima parte, dopo il suicidio della donna amata sparatasi un colpo di pistola davanti allo specchio, regna tra le parole lo spaesamento. Scipio è colto da una profonda tristezza e arriva a dubitare della propria ragione. Il senso di colpa per non avere compreso e salvato la sua amata lo soverchia e ogni suo passo è accompagnato da dubbi, incertezze, cavità, foibe, voragini dentro cui scomparire. Il vuoto di un senso perduto.
Val Rosandra, pochi chilometri da Trieste, sul confine con la Slovenia
Così il narratore ritorna sul Carso, ritorna a fare i conti con la natura selvaggia che lo aveva cresciuto per domandare a lei una spiegazione dell’insensatezza della vita e della morte. A poco a poco, pagina dopo pagina, Scipio si costringe a tornare alla vita sebbene dentro di sé ci sia solo malinconia e silenzio. In un estremo e conclusivo slancio vitale viene pronunciata la solenne promessa, rivolta in primis a se stesso ma anche al mondo intero:
«Noi vogliamo amare e lavorare» come soluzione all’inquietudine dell’esistenza, equilibrio tra fervore interiore e forza fisica. Una dichiarazione d’intenti che, dopo la lettura dell’opera e dopo aver sviluppato una sorta di 'accordatura' con l’animo dell’autore, assume il tono di una rassegnata rinuncia.
Pochi anni dopo, all’entrata in guerra dell’Italia, Scipio si arruola come volontario per la causa italiana. «Io vedo che siamo uomini, che la guerra esige di più che le forze umane, che ha in sé qualcosa di superiore e di troppo più spaventevole che un uomo possa dare e sopportare», scrive.
Morirà sul Monte Podgora, nel 1915, a 27 anni.
Il mio Carso è un libro di poche pagine, ma non è una lettura semplice. Mi ha dato tanto, in tempi diversi, con nuove riletture e diverse attenzioni, ma sempre mi ha trasmesso una sostanziale grande dolcezza e amore per la parola.
Da leggere in montagna, sotto una pianta le cui fronde frusciano al vento, oppure su una panchina (di normali dimensioni, mi raccomando) in riva a un fiume che scorre lento.