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Canto di Natale
Il capolavoro di Charles Dickens
di Luca Conca
«Nessun verdetto letterario potrà mai rendere piena giustizia a Charles Dickens. Egli creò un mondo e, nel tempo libero, inventò il Natale.» [Anthony Burgess, Inimitable, 1986]
Comincerei proprio da questa bellissima citazione di Burgess per parlare forse del racconto di Natale più conosciuto, famoso e citato di tutta la letteratura, «A Christmas carol» (Canto di Natale) appunto. Dickens lo scrisse nel 1843, quando già era famoso e tra le sue opere figuravano classici come Il circolo Pickwick e Oliver Twist.
Aveva pensato a una serie di racconti che avessero prima di un’ambientazione, uno spirito natalizio, che lui identificava con una bontà d’animo, una disposizione all’altro e che sperava, per dirlo con le sue parole «che suscitassero pensieri d’amore e di considerazione verso il prossimo che non sono mai fuori stagione in un paese cristiano».
Dickens era un riformista e in tutta la sua opera ha sempre avuto una grande attenzione ai problemi sociali, perseguendo un intento quasi catechistico; una volontà di educare, sensibilizzare e anche condannare attraverso la scrittura. Può sembrare un idealismo un po’ ingenuo oggi ma nell’Inghilterra vittoriana, e soprattutto nella Londra di quegli anni, una capitale in enorme espansione e che vedeva crescere sempre più povertà e violenza, la voce autorevole di un autore di così grande diffusione poteva contribuire a sensibilizzare l’opinione pubblica e anche un po’ a cambiare le cose.
Dickens, nel suo sentimento religioso, immaginava i lettori raccolti tutti insieme davanti al focolare domestico, ad ascoltare un membro della famiglia leggere con il giusto trasporto i suoi racconti. Ed è proprio il focolare l’elemento attorno al quale lo scrittore 'crea' il Natale. L’immaginario della famiglia riunita per le feste, la centralità del focolare nel messaggio natalizio e cristiano nascono proprio con i Christmas books di Charles Dickens.
Lo vediamo benissimo proprio nel Canto di Natale:
«Finalmente il pranzo giunse alla conclusione, la tavola venne sparecchiata, il focolare spazzato e il fuoco acceso. La composizione nella brocca venne assaggiata e giudicata perfetta. Mele e arance furono collocate sulla tavola e una manciata di castagne sul fuoco. Tutta la famiglia Cratchit si strinse attorno al focolare, formando quello che Bob Cratchit chiamava un circolo, mentre era soltanto la metà di uno.»
La trama del racconto è ormai celeberrima, il vecchio e avaro Scrooge, nella notte di Natale, riceverà la visita di tre spiriti, il Natale Passato, quello Presente e quello Futuro, si renderà conto di quanti errori ha commesso, cercando finalmente di iniziare una nuova vita di generosità e bontà. Potremmo però anche dire che la storia non si sviluppa solo tra queste dicotomie tradizionali e di genere, come avarizia e generosità, aridità e altruismo, cattiveria e bontà, ma anche tra abbondanza e miseria, sazietà e fame.
Il Natale che ci racconta Dickens è tutto giocato sull’efficacissimo contrasto tra l’opulenza e la ricchezza dei Natali vissuti nel passato da ragazzo di Ebenezer Scrooge (una ricchezza che è anche di amicizie, sentimenti, amori) e la povertà del Natale presente che è una povertà reale ed economica per Bob Cratchit (l’impiegato buono e paziente) e una povertà di spirito, di amore e di rapporti sociali di Scrooge. E molte di queste immagini contrapposte ed accostate riguardano proprio il cibo.
Scrooge vive in una grande casa fredda e vuota, senza quasi mobilio tranne l’essenziale e senza il calore di una presenza che lo accolga quando torna la sera; l’avarizia e l’egoismo lo hanno portato a vivere da solo negandosi ogni piacere, anche solo quello di una cena calda e rinfrancante. In una delle scene più felici narrativamente parlando ma anche più tristi vediamo Scrooge, tornato a casa tardi come al solito dopo una giornata passata in ufficio, avvicinare una polverosa sedia al fuoco del camino e scaldarsi una magra minestra d’avena. Ne dà una splendida e commovente interpretazione Albert Finney in una delle tante riduzioni cinematografiche, quella diretta da Ronald Neame nel 1970, in cui con cucchiaio e scodella risucchia rumorosamente borbottando e lamentandosi tra sé e sé.
Anche la cena di Bob Cratchit e della sua famiglia è povera e frugale e la loro tavola è raramente ricca di pietanze, con il ben misero stipendio che Scrooge gli paga, ma il desiderio dell’impiegato è poter concedere ai suoi cari un pranzo dignitoso almeno il giorno di Natale. La gioia e l’impazienza di ogni membro della famiglia Cratchit per quel pasto così a lungo atteso e per quelle leccornie a poco prezzo, è un poco guastata dall’angustia per il sacrificio che tutti sanno che quel pasto ha comportato: mesi e mesi di attento risparmio, con i tanti problemi che ogni giorno si devono fronteggiare!
Ma il senso del Natale sta in questa condivisione e nella consapevolezza di volerla vivere appieno. Il vecchio Scrooge odia il Natale proprio perché a suo dire è la più grande scusa per sperperare e indulgere in vizi e inutili divertimenti, primo tra tutti la tavola imbandita. E di questa abbondanza il tacchino enorme che campeggia nella vetrina del pollivendolo è l’immagine ideale; i ragazzini lo guardano ammirati e anche i signori e le signore della buona borghesia lo soppesano con lo sguardo. Grande, bianco e pronto a diventare il re del pranzo natalizio.
Sarà proprio Scrooge, al suo risveglio la mattina di Natale, dopo aver passato in rassegna tutta la sua vita sbagliata e aver visto la tremenda fine a cui è destinato, a pensare a quel gigantesco tacchino come al primo passo per diventare un uomo migliore. Spalancherà la finestra all’aria limpida e frizzante di quella giornata speciale e chiamerà un ragazzino vestito a festa:
- Sai se hanno venduto quel tacchino che c’era appeso in mostra alla bottega? Non quello piccolo, ma quello grosso.
- Quale, quello grosso come me? - rispose il ragazzino.
- Sì, figliolo mio.
- C’è ancora appeso adesso.
- Sì? Davvero? Ebbene, corri subito a comprarlo.
E il tacchino finirà sulla tavola della famiglia Cratchit, come segno di una vita finalmente piena, ricca e felice, in uno dei finali più commoventi che Dickens ci ha regalato, quando ha deciso di inventare il Natale.