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I miei stupidi intenti
di Bernardo Zannoni
Archy è nato d’inverno. Suo padre è morto prima che lui nascesse, è stato ucciso dall’uomo che stava derubando e il suo corpo senza vita, come monito, è stato legato al palo di un recinto.
La madre di Archy si dispera: «Disgraziato, disgraziato! E adesso chi li cresce questi figli di nessuno?».
Insieme ad altri due fratelli e due sorelle, Archy divide il poco spazio di un riparo troppo freddo e angusto, e il rigido cuore di una madre troppo povera e affamata.
«Non vi ammalate, non posso pagare il dottore», ripete ai figli.
L’inverno è lungo e la neve cade copiosa. Archy riflette, si pone delle domande, si angustia per il dolore della madre, ammira il fratello più forte e intraprendente di tutti, si intristisce per il più piccolo e debole destinato a morire, ha un rapporto incestuoso con la sorella più bella.
Nel tentativo di procurare del cibo per sé e per la famiglia, Archy si frattura un arto. La madre, come promesso, non lo fa curare e Archy rimarrà zoppo a vita. Disabile quindi inutile, viene venduto a un usuraio senza scrupoli che campa sulla fame altrui.
Ed è solo l’inizio. Nella sua complicata e miserevole vita Archy incontra e si confronta con la più ampia gamma di sentimenti: subisce la cattiveria del suo padrone, conosce la pazienza e la fedeltà di Gioele, assiste impotente alla violenza del nuovo compagno della madre, Mathias, che in troppo poco tempo si impadronisce di tutto ciò che trova, compresa l’innocenza della sorellina Louise, ma incontra anche l’amore di Anja, che lo renderà padre, e l’amicizia salvifica di Klaus, al quale si sentirà di tramandare il suo bene più prezioso.
Ora: se leggendo queste mie righe vi siete immaginati Archy come un dickensiano ragazzino emaciato, e l’ambientazione in cui si svolge tutta la vicenda come un quartiere degradato e sovraffollato alla periferia di una grande città, cancellate tutto e rileggete, perché ci troviamo nel bosco, Archy è una faina, il padrone usuraio è una volpe, Gioele è un cane e Klaus un istrice.
Sì, siamo nel mondo animale, ma incredibilmente perfettamente sovrapponibile a quello umano.
Gli animali in questo libro vivono in tane e cunicoli, tra fango ed erba bagnata ma come noi parlano, usano piatti per il cibo, sedie e tavoli, dormono in letti, accendono fuochi, e il loro mondo è una lotta per la sopravvivenza, dura e spietata, come d'altronde è la natura.
Anche se scarno di descrizioni ambientali e suggestioni paesaggistiche, non è difficile percepire tra le righe il freddo dell’inverno, l’umido della nebbia, il crepitio del tappeto autunnale di foglie colorate, oppure avvertire il puzzo di pelo bagnato delle tante bestie che popolano queste pagine. Descrizioni appena accennate, tra un avvenimento e l’altro, inserite tra il susseguirsi degli eventi come piccoli acquerelli dipinti e sfumati ad arte.
Lo stesso vale per le riflessioni sulla vita, sulla morte, sull’amore, sull’istinto e la ragione. Sono come piccoli sassolini lasciati qua e là dall’autore a indicare un percorso, una strada che non ha però alcuna pretesa di diventare 'la strada' e appare priva di fini didascalici.
Archy incarna l’istinto animale e al contempo il raziocinio umano e nell’intento di trovare un equilibrio tra le due sfere, si abbandona a sentimenti, pensieri e riflessioni. Nel dibattersi ancestrale tra gli istinti primordiali e i comportamenti dettati dalla ragione, si fa spazio la paura della fine e il terrore di andarsene senza lasciare traccia. Proprio questo, per l’autore, differenzia gli umani dagli animali: la consapevolezza che siamo esseri finiti, che hanno un inizio nella nascita e una fine nella morte.
«La tremenda scoperta della morte mi tolse il sonno e mi rese fiacco, lasciandomi annegare in una silente disperazione. Quel che vedevo mi faceva male, quel che sentivo mi allontanava in una odiosa eco; il mio rapporto con la vita era scomparso dietro la coscienza della fine».
La morte, l’inevitabile. Il tempo, un fastidioso difetto.
Solomon la volpe, l’usuraio padrone, gli indicherà l’unica via di fuga in tutto questo dolore.
«Mi aveva insegnato a leggere, a scrivere, a lavorare sodo. Mi aveva aperto gli occhi sul mondo e sulla nostra esistenza, dolorosa ed effimera. Mi aveva insegnato ad adorare un Dio che non ci avrebbe salvato, ma che avrebbe salvato lui dal suo più grande terrore, sparire, come stava facendo adesso, come avremmo fatto tutti».
La scrittura, la lettura (la cultura?) come strumento di salvezza.
E la scoperta della musica, appena accennata, come un magico incanto che nasconde mistero.
«All’improvviso un rumore mai sentito girò per la stanza. Erano piccoli colpi estesi nell’aria, in successione, ognuno diverso dall’altro. Vorticavano assieme in un saliscendi, formando un suono docile, che carezzava le orecchie».
Gli stupidi intenti di Archy sono quelli di un animale che cerca di trovare una risposta al perché della morte e del dolore, e quale sia il ruolo di Dio in tutto questo soffrire. E questo porta il lettore a un continuo saliscendi tra un livello sovra-umano, ai limiti del filosofico e sotto-umano, quasi primordiale. Una parabola altalenante in cui le continue metafore e le allegorie impongono la riflessione, richiedono una pausa per elaborare ciò che si è letto perché probabilmente c’è qualcosa di più tra quelle righe, che va oltre i semplici eventi.
«I miei stupidi intenti» è un libro scritto da Bernardo Zannoni e pubblicato da Sellerio nel 2021. È l’esordio di un giovanissimo scrittore che con questo romanzo ha vinto il Premio Campiello 2022, il Bagutta Opera prima e il Premio Salerno Libro d’Europa. Il libro rapisce per la sua bellezza, per la splendida copertina, per l’eleganza e la naturalezza fluida della scrittura. Uno stile pulito, semplice ma non banale. Una voce asciutta e lucida che mantiene lo stesso tenore dal meraviglioso incipit:
«Mio padre morì perché era un ladro. Rubò tre volte nei campi di Zò, e alla quarta l’uomo lo prese. Gli sparò nella pancia, gli strappò la gallina di bocca e poi lo legò a un lato del recinto come avvertimento. Lasciava la sua compagna con sei cuccioli sulla testa, in pieno inverno, con la neve».
fino all’altrettanto meraviglioso finale, nel quale con le lacrime agli occhi sentiamo suo, nostro, universale l’ultimo stupido intento.