La casa mangia le parole

di Leonardo Giovanni Luccone

di Deborah Mangiafico

Mano sulla bocca 1920

«Le parole tracciano i confini del mondo e i limiti della rappresentazione. Il mondo è dentro di noi e le parole sono la bussola nello spazio interiore.

Non siamo impermeabili alla lingua del mondo: il brusio della catastrofe, i sommovimenti delle placche tettoniche, il pigolio dei raggi cosmici, lo scarico dei water subito dopo colazione, bello o brutto che sia, tutto questo è il nostro sostrato. A cosa possiamo aggrapparci se non alla rete metallica della nostra voce?»

Leonardo G. Luccone è nato nel 1973 e vive a Roma. Scrittore, talent scout, editor, ha tradotto e curato volumi di scrittori angloamericani come John Cheever e F. Scott Fitzgerald. Ha diretto la narrativa delle edizioni Nutrimenti e la casa editrice 66thand2nd. Nel 2005 ha fondato lo studio editoriale e agenzia letteraria Oblique. Scrive su la Repubblica e Rivista Studio.

Leggo Leonardo G. Luccone da moltissimo tempo, ne leggevo gli articoli sul suo blog Dentro Il Cerchio già nel lontano 2003. Ne ho letto i romanzi Questione di virgole, La casa mangia le parole e Il figlio delle sorelle.

luccone casa mangia cover altaLa casa mangia le parole è quello che ho preferito in assoluto. ll titolo è senza dubbio accattivante, come pure l’immagine di copertina. Appena l’ho avuto tra le mani, l’ho letto subito e felicemente ho ritrovato lo stile magistrale dell’autore.

Il romanzo si svolge nell’arco temporale di un anno e si apre e si chiude raccontando il Capodanno che i De Stefano trascorrono in Abruzzo, dagli anziani genitori di lei, ignari che i due si sono separati. Inizia con una menzogna, quindi, per converso all’esergo di Moses, personaggio chiave del romanzo: «Dobbiamo sempre dire la verità perché chi dovrebbe garantirci la verità ci racconta storielle consolatorie o ci sorride con la faccia da lieto fine».

Moses è un personaggio reale, un ecologista italoamericano di Boston, che insieme a De Stefano lavora alla Bioambiente, azienda romana specializzata in energie rinnovabili. Luccone, raccontandolo, in questo equilibrato compenetrarsi di realtà e finzione, racconta la sua città, inserisce altre storie nella storia, incluso il percorso del libro vero di Moses Sabatini (Questo mondo che respira), e ricorda un episodio drammatico della storia americana: il Great molasses flood (1919), il disastro della melassa, uno dei più importanti incidenti industriali dello scorso secolo, che nel romanzo diventa metafora di crollo e crisi.

La casa mangia le parole è la storia di una casa e di una famiglia e dell’unica luce che le tiene in piedi, Emanuele, ma anche la storia della casa più grande che tutti noi abitiamo; è la storia dei luoghi in cui viviamo e ci perdiamo, che non sono case, ma sono le nostre città, le nostre comunità d’appartenenza, il mondo in cui viviamo.

I De Stefano vivono a Roma, in «un quartiere di famiglie radicate e orgogliose, e poi perlopiù avvocati, medici e gente che lavora per la televisione», in una Roma che è bellezza e decadenza ( «Roma cambia più della malinconia di chi la guarda. Lerosione dello spazio riduce la grandezza imperiale che accarezza le rovine e rimette a posto la polvere» ), che esibisce feste in terrazza con gli amici vestiti bene.

Sono belli, benestanti, invidiati, vivono una vita edulcorata e apparentemente perfetta. Luccone li tiene a distanza, per questo non li chiama mai per nome.

I De Stefano sono sinceri solo nel rapporto con il figlio Emanuele. E Emanuele deve sconfiggere un mostro che un nome, a differenza dei De Stefano, ce l’ha: si chiama dislessia. Per Emanuele le parole sono un ostacolo ( »Eh, sì, e non sa quanto stress dà ai bambini dislessici. Per loro leggere è unimpresa difficilissima, e le parole possono diventare dei mostri». ), ma non sono invincibili: accanto a lui ci sono i genitori, soprattutto il padre, che attua una serie di strategie didattiche per affrontare il problema nel migliore dei modi e con tutto l’amore possibile. Sono forse la tenerezza e l’amore per questo figlio che ci rendono il De Stefano padre meno antipatico di quanto dovrebbe, a differenza della madre più egocentrica seppur nella sua fragile figura.

Il romanzo è ricco di temi coraggiosi, permeati di utopie e tragedie: la farsa di una coppia che finge di stare ancora insieme, il disagio privato che diventa simbolo della decadenza di un’intera classe, sul grande sfondo di una natura che pare ribellarsi alla nostra incuria e mostra tutta la sua impietosa potenza. Uno sguardo che si dilata, che abilmente esce dai confini privati per diventare globale, che fa assomigliare questo romanzo italiano ad un romanzo americano, tipicamente di ampie inquadrature.

Ma vere protagoniste sono le parole. Quelle dette e quelle non dette, quelle che si inceppano nella bocca, quelle che rimangono inurlate. Le parole sono lo strumento di rappresentazione e in quanto tali sono in grado di circoscrivere i confini del mondo.
«Le cose esistono quando vengono nominate. Si creano quando viene pronunciato il loro nome. Poi diventano ingombranti. Hanno spigoli da tutte le parti, un colore fluorescente che si vede pure di notte. Quando le cose vengono nominate per la prima volta diventano vere».

La casa fa da cassa di risonanza e da registro, ma registra il silenzio. Una casa in cui le parole dette sono pochissime, in cui si ripetono sempre le stesse frasi. Incomunicabilità, noia, frustrazione, solitudine, sono i sentimenti che scaturiscono dai dialoghi, spesso asciutti come una registrazione, come una presa diretta. Non è un libro facile, non è un libro di intrattenimento, ma è un libro che può essere terapeutico. E come spesso accade in questo genere di romanzi, parole chiave possono  aprire porte nell’anima di chi lo legge.

«Per manipolare la realtà basta manipolare le parole».
Luccone ha scritto questo romanzo utilizzando le giuste parole, mai banali, sempre eleganti e precise. Attraverso quest’uso sapiente ha fatto in modo che il lettore si rendesse conto di qualcosa, del nostro tempo che non è quello del mondo ( «E il pino è lì, più rigoglioso che mai a farsi beffe della pochezza degli uomini, del loro fiato corto e delle loro giravolte». ), e che è bene ricordarsi, sempre, che «tutte le cose hanno due fuochi, siamo noi che ci sforziamo di dargli un centro». Ci suggerisce queste universali riflessioni con una potente metafora come quella della parola e del suo smarrimento: la dislessia. 

Leonardo G. Luccone, La casa mangia le parole, Ponte alle Grazie, 2019

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