La paura del medico

Quando smaschera la nostra illusione di essere eterni

di Alessandro Bertolini

anziana medico

Da ragazzino non ho mai avuto grosse paure. Certo, le poche volte che mi sono trovato solo in casa rammento di averlo vissuto all’epoca con un certo disagio, ma niente di più.


Non ero il solo ad avere questi timori. Un amico urlava sempre «venite fuori che so dove siete nascosti» a ladri immaginari, per poi starsene in poltrona tranquillo a vedere la televisione. Esorcizzava il timore di essere solo, lanciando degli inutili ordini a squarciagola.

Io al contrario non mi sono mai prestato a simili atteggiamenti, anche se certi film di Hitchcock un pochetto di disagio me lo mettevano, inducendomi a comportamenti conseguenti: aspettare la mamma sulla soglia di casa, guardare nel letto che non vi fosse tra le lenzuola un serpente velenoso, tirare la tenda per non essere il bersaglio di un cecchino e poi guardare sempre che l’ascensore fosse fermo al mio piano. Tutte piccole fobie frutto di suggestioni cinematografiche e non fondate.

Tolti questi pochi ricordi, non ho mai provato paura al di fuori del mondo sanitario e della mia professione. Non sono stato in guerra, non mi sono mai trovato in una calamità, in un incendio, in un disastro aereo o ferroviario, dove penso che la paura sia d’obbligo. Nelle poche volte in cui mi sono trovato in una posizione rischiosa, ho provato una sorta di tremarella dopo aver scampato il pericolo. Si è trattato di paura a posteriori, dopo aver corso un rischio e non dovuta al timore di qualcosa che stesse per accadere. Prima che accada un disastro neppure lo si avverte o lo si immagina. Dopo, a mente serena, uno rielabora l’accaduto e allora qualche mal di pancia lo avverte.

Ciononostante credo che l’argomento paura mi sia pertinente, perché ritengo che nessun sentimento calzi più a pennello con l'universo salute, della paura. La malattia o il timore di averla coinvolge tutti noi senza distinzioni ben prima di sapere che cosa accadrà.
La paura riguarda i pazienti, le famiglie e anche gli operatori sanitari, quando sono strumento di cura oppure quando capita che siano essi stessi malati o familiari di pazienti. Paura di morire, paura di non guarire, di essere malato, di avere qualcosa di brutto, paura di fare gli esami del sangue, degli esiti di una radiografia, paura di un responso sfavorevole, di un colloquio con un medico, paura che possa tutto quanto capitare a noi stessi o ai nostri affetti più cari. 
Insomma, la paura davanti alla malattia è presente in tutti e in numerose occasioni. E questo accade in modo indipendente dal tipo di problema, dalla cultura del singolo o dalla professione che esercita. Si può avere paura durante l'esecuzione di una semplice radiografia o nell'attesa di un intervento chirurgico a cuore aperto. Questo capita ad ogni persona, anche e soprattutto quando il coinvolto sia un medico o un infermiere.

Quando il mondo sanitario si trova a gestire dall'altra parte della barricata una propria difficoltà di salute la situazione paventa lo scenario peggiore. Il medico perde l’usuale serenità, perché conoscendo l'argomento in cui è coinvolto e le possibili complicanze, anche le più rare, si trova a vedere tutto fosco, a prospettare gli esiti più negativi e a rinunciare a quell'obiettività che in genere adopera quando deve esprimere un parere asettico in favore del prossimo.

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Lo scorso maggio mia madre, che ha 84 anni e vive a Milano lontano da me, si ruppe il femore cadendo banalmente in casa. Mamma è ancora una nonna con un'intelligenza e una capacità di rapportarsi col mondo molto attiva, tiene i conti di casa, decide cosa acquistare o far da mangiare, governa l'economia domestica con un agire matriarcale gradevole, anche se da prima del trauma aveva perso l'autonomia motoria e oggi per camminare deve dipendere da un girello. Durante quelle ore, dalla frattura al ricovero, ricordo di aver immaginato come in un film tutto quello che sarebbe potuto accadere alla mia mamma e di conseguenza ho provato tutte le paure del mondo. Ho pensato da medico che lei potesse non farcela, che la frattura non potesse essere operata, che potesse nell'attesa avere un infarto, un'embolia, che il cuore cedesse in sala operatoria, che avesse una polmonite dopo l'intervento, un ictus e poi ancora decubiti per l'immobilità forzata e soprattutto che restasse a letto inabile per il resto del suo vivere.
Le ho soppesate tutte, perché conoscevo ogni più piccolo risvolto clinico, che ho tenuto per me senza trasmetterlo ad altri, tantomeno a mia sorella. Anzi, con lei feci finta che ogni cosa fosse sotto controllo e andasse per il meglio, senza rischi o difficoltà, come in realtà andò. In quei momenti, mentre sperimentavo i peggiori timori di un figlio, riuscii ad apparire sereno, mentre in realtà dentro ero un ribollire di tremende e incontrollabili preoccupazioni.

Questo episodio spiega la paura per se stessi davanti alla malattia, quella che sperimenta ogni sanitario in prima persona e ogni semplice individuo privo di conoscenze mediche se sopraffatto dalle incertezze del momento. Quando invece si esercita la professione esiste un altro timore, che è quello di non riuscire a dare al paziente la giusta risposta al bisogno osservato, di non essere in grado di dare una buona notizia o di salvare una vita. È la paura del clinico, che pondera i possibili risultati e teme che l'atto sarà in balia di tutte le possibili negatività che egli conosce. Questa è la paura per gli altri, più intensa e opprimente rispetto a qualsiasi timore possa provare ogni altro professionista nello svolgere con dedizione il proprio lavoro.
Nonostante i differenti momenti in cui noi medici applichiamo il sentimento paura, nonostante la consapevolezza che spesso paura e certezza del fallimento coincidano, nella gestione del percorso salute, l'atteggiamento che più si persegue è quello al positivo, col bicchiere sempre mezzo pieno e indirizzato alla positività. Il risultato atteso e dichiarato è sempre improntato alla buona riuscita dell'atto medico e mai il contrario. È lo stesso metodo di affrontare le difficoltà che usai con mia sorella nel gestire il femore rotto di nostra madre, celando in me ogni negatività per trasmettere a lei solo speranza è ottimismo. Non potrebbe che essere così, altrimenti sarebbe impossibile esercitare la nostra professione.

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Visto con gli occhi di chi non è sanitario ma che si trovi coinvolto da un problema di salute, la paura dipende da quella ignoranza della medicina che non possiede solo chi l'abbia studiata. Gli altri, anche se acculturati, trovano la salute un concetto incomprensibile e per questo si sentono in balia di un altro individuo, di un'organizzazione che non conoscono e di procedure e paroloni che atterriscono. Pazienti e famiglie devono fidarsi e investire sulle esperienze professionali altrui per conseguire il beneficio atteso. La paura in questo caso raddoppia, perché terrorizza la malattia e terrorizza il dover ubbidire ciecamente a qualcuno, che dell'argomento ne sa molto di più.

Il paziente si sente sottomesso ad una sorta di potere assoluto ingovernabile. Deve affidare la propria vita ad altri, come quando si sale su un aereo e chi lo guida è un pilota che lo sa fare, mentre gli altri duecento che sono a bordo devono augurarsi che oltre alle buone condizioni del velivolo vi sia un comandante che sappia il fatto suo. La paura dell'ignoto, di cosa accadrà, dei consigli o delle prescrizioni ricevute, tutto quanto coincide e trasforma la nostra illusione di eternità nella consapevolezza di quanto possa essere caduco il nostro vivere. Lo si comprende solo quando prende il sopravvento la paura di essere ammalati. È una paura concreta, che lascia traccia anche nei ricordi, ben diversa dalle fantasie di un ragazzino che per entrare in casa si trovava a urlare «venite fuori che so dove siete nascosti».

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