Una storia sbagliata

La famiglia sul palco

di Franco Ferramini

michael jackson youtube 1280

Qualche riga su quella che si potrebbe definire «Una storia sbagliata», citando la famosa canzone di Fabrizio De André.

La famiglia sul palco, ovvero la dimostrazione che insieme si può essere forti, che i legami di sangue cementano e ostentano le doti artistiche, per far capire al pubblico che «noi veniamo tutti da lì».

Al pubblico piace scrutare nelle storie dei propri idoli, curiosare nelle loro vite private, quasi a confrontarle con le proprie, sicuramente più abitudinarie e noiose. Lustrini e pajettes del mondo dello spettacolo attirano, provocano confronti, spesso sono soggette a devastanti giudizi morali. Molte volte le critiche sono determinate dall’invidia, dal pensare che i propri beniamini sono ricchi e miliardari proprio grazie alla devozione dei fans. Si entra quindi in un giro vizioso tipo «io ti rendo grande, io ti posso distruggere», a sottolineare la precarietà continua del successo, che chiede agli artisti di essere sempre al meglio e di non sgarrare mai nei confronti del proprio pubblico.
Paradossalmente, se chi segue un artista vuole essere masochisticamente provocato dal proprio idolo. Anche non volendolo costui sarà costretto a ricoprire per sempre quel tipo di recita, pena la decadenza dal successo. Se un musicista comincia ad esibirsi da piccolo coi propri fratelli in un gruppo di enorme successo, e quel musicista è il più giovane e adorabile del complesso, il suo destino è segnato, la sua giovinezza ha un percorso obbligato che lo porterà a non sbagliare mai, a ricercare la perfezione nelle sue performance dal vivo e in studio. Questa è la storia di Michael Jackson. Avere successo mondiale in un gruppo coi propri fratelli, sotto la supervisione di padre e madre, ed essere il più piccolo e talentuoso di tutti, è un marchio che segna tutta la vita. Lì si può perdere col tempo la dimensione della realtà, anche magari non volendolo. In quelle situazioni le manie, le piccole follie da star, possono diventare dei macigni per la psiche, dei tormenti dell’essere, fantasmi nella mente che, in un abbraccio continuo e spesso soffocante col proprio pubblico, non forniscono vie d’uscita, non danno alternative. Perché per il mondo e per il 'business' la favola non si può spezzare, il suo protagonista non può non esistere più.

Era adorabile quel bambino, già leader musicale sul palco, mentre canta «I want you back» nel 1969, a undici anni, con già qualche anno alle spalle di successi coi propri fratelli. Adorabile e incredibilmente talentuoso, una voce bellissima, qualche accenno di acerba coreografia che fa già però presagire una futura indubbia capacità di ballerino moderno sul palco, con movenze che scriveranno per sempre uno stile inconfondibile, lo stile Michael Jackson.

«The king of pop» nacque a Gary, nello stato americano dell’Indiana, il 29 agosto 1958. Michael Joseph Jackson era il settimo di dieci fratelli di una modesta famiglia afroamericana. Padre operaio e madre commessa in un supermercato, in famiglia si respirava il severo sapore della Bibbia, unico credo e strumento inderogabile di educazione. Un clima severo, un rapporto molto difficile col padre, le punizioni corporali non si risparmiavano. Il 29 agosto del 1965 Michael compì sette anni, quel giorno avvenne la prima esibizione in pubblico coi suoi fratelli in un centro commerciale di Gary. «The Jackson Five», così si chiamava il gruppo composto dai cinque fratelli 'allenati dal padre', comincia a girare per tutti i locali per neri del 'Midwest' americano, un tour pressante che tocca anche locali per spogliarellisti. Lasciamo immaginare il trauma che ciò può aver creato nei due più piccoli del complesso, Marion e Michael. Il gruppo cominciò a riscuotere un certo successo, si parlava e scriveva di loro, soprattutto di quel bambino-prodigio che cantava benissimo e sul palco affinava sempre più le sue naturali doti istrioniche di ballerino.

Arrivò così il contratto con la Motown, la prestigiosa casa discografica dei tempi 'per soli neri'. Nel 1969 Diana Ross, ex “Supremes”, la più affermata cantante di quell’etichetta discografica, lanciò definitivamente nel firmamento musicale «The Jackson Five», con l’album «Diana Ross Presents the Jackson 5», al cui interno l’ancor oggi famosissimo singolo «I want you back» primeggiò nelle classifiche di dischi, nelle esibizioni televisive e in quelle dal vivo. Andate a vedervi i filmati dell’epoca, la straordinaria seppur acerba capacità di 'tenere il palco' di Michael bambino. Straordinaria. Quei cinque fratelli neri erano già nella storia della musica leggera, i loro primi quattro singoli si piazzarono alternativamente al primo posto della Billboard americana, un successo senza precedenti.

Michael Jackson allora aveva solo undici anni. Una vita già fuori dal comune, la realtà per quel bambino già non esisteva, o meglio, la realtà per lui era solo palco e studi di registrazione, insieme ai fratelli maggiori. Ci sono sempre stati fenomeni musicali bambini, nei nostri giorni siamo pieni di trasmissioni televisive varie in cui si esibiscono bimbi con impegnativi brani da adulti. Ai tempi però, quello di Michael e i suoi fratelli era già successo, fama, incassi, luci della ribalta all’eccesso, in quello che era già un turbinio sfavillante di fans adoranti e inteneriti da quel piccolo, con quella bella voce e le sue abili movenze sulle tavole del palcoscenico. Difficile rimanere coi piedi per terra, impossibile staccarsi per lui da quelle emozioni e non lavorare per migliorarsi e modernizzarsi sempre più nelle proprie esibizioni. Iniziarono i cambi di etichetta, le cause legali, il tutto gestito dal padre-manager.
Quello che non cambiò era il successo continuo dei fratelli Jackson, che approdarono alla «Epic». Con quella casa discografica Michael inizia a incidere dischi da solista, pur continuando a collaborare col gruppo. Nel 1982 «The King of the Pop» incise il suo secondo album da solista: «Thriller». Un successo strepitoso, fu la svolta definitiva che convinse Michael a intraprendere la carriera da solista, ad abbandonare artisticamente per sempre la sua famiglia naturale per lasciarsi accarezzare da quella che sarebbe diventata in poco tempo la sua famiglia di adozione: il pubblico adorante di tutto il mondo.

Francamente, per chi ama la musica vera e preferisce sentirla nelle sue molteplici meravigliose sfaccettature e componenti, è difficile innamorarsi di Michael Jackson. Nelle sue note è facile riconoscere l’inizio di quello che sarebbe poi divenuto negli anni un degrado legato a certi stili musicali che nulla hanno a che vedere con le muse Euterpe e Melpomene. Intendiamoci, in lui tutto ciò era all’inizio. Alcuni suoi brani, accompagnati dalle sue spettacolari esibizioni dal vivo, hanno sicuramente un notevole fascino. «The human nature», a mio modesto parere la sua più bella canzone, è stata suonata addirittura dal 'divino' Miles, Miles Davis. Inutile dipanare una mera cronistoria dei successi di Michael Jackson, chi lo ama (ma anche chi no, o addirittura lo odia), in qualche modo li conosce a causa del martellamento mediatico al quale sono stati assoggettati.

Credo che sia importante soffermarsi su un aspetto, forse fondamentale, della vita di questo artista: l’estraniazione dalla realtà, come ho già accennato, è una componente costante della sua vita. Nato artisticamente in tenera età all’interno della sua famiglia, protetto dai suoi parenti più prossimi, nel momento in cui per forza di cose e per bravura indiscussa iniziò la carriera solista, perse il suo guscio d’origine e tentò di crearsene un altro. Una famiglia, diciamo, notevolmente allargata, composta dai suoi milioni di fans e da bambini, di cui si circondò nella fantastica Neverland, la sua residenza da sogno. Lui, sempre in bilico tra il cantante, il ballerino provetto, e il fenomeno da baraccone, fino a crearsi, con l’età che avanzava, una maschera. Il desiderio di diventare bianco, il viso ormai costretto ad evidenti ritocchi di tutti i tipi, forse per non invecchiare mai, forse per piacere sempre di più al proprio pubblico, snaturandosi completamente. Il distacco completo dalla realtà, dicevo, si compì sempre più definitivo. La sua famiglia allargata, bambini quasi strappati ai genitori, affascinati dal successo di quest’uomo, impossibile resistergli.

» Guarda anche: Leaving Neverland Parte 2

Da poco è uscito quel documentario, quel «Leaving Neverland», che offre un’immagine di Michael Jackson orrenda, in preda a una forma di 'gentile' pedofilia nei confronti dei minori che lui ospitava, 'per fargli del bene' e lanciarli sulla strada del successo. A onor del vero, un film postumo, molto postumo, senza possibilità alcuna di replica da parte dell’interessato. Notizia di questi giorni è l’uscita di un contro-documentario da parte dei parenti di Michael. «Una storia sbagliata» appunto, per dirla alla Fabrizio De André. Non dimentichiamo mai però che lui, Michael, era già stato sottoposto a vivisezionanti processi giudiziari per questi motivi, quattordici capi di accusa, di cui quattro minori, per tutti questi giudicato non colpevole. Una formula giudiziaria totalmente assolutoria.
Tutta la controversa vita di Michael Jackson offre il paradigma di quello che può essere la famiglia: una forma di protezione dall’esterno, positiva se razionale, fortemente negativa se straniante dalla realtà. Nella musica, nello spettacolo, come nella vita, la famiglia di origine deve preparare alle difficoltà dell’esistenza. Non è facile, è forse il compito più difficile del mondo; se si commettono degli errori, però, rischiano di diventare degli enormi macigni sulla strada della serenità.

Ma guardiamolo ancora questo artista di indubbio fascino, indipendentemente da qualsiasi giudizio di tipo musicale o morale. Ricordiamocelo così, sul palco, abbracciato idealmente dai suoi fans in delirio, mentre lui veramente offriva tutto se stesso nelle sue faticose performance: un enorme, grandioso fenomeno artistico dei nostri tempi.

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