Note ricche

La ricchezza nel suono

di Franco Ferramini

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foto: «The Boss» Bruce Springsteen

Musicalmente parlando, esiste certamente musica ricca, musica povera e musica che è talmente lontana dal concetto stesso che non si può neanche definire tale.

La musica povera può essere comunque molto bella e dignitosa. Quella popolare nasce dalle credenze, dalla sofferenza, dalla voglia di riscatto. Spesso viene direttamente dal popolo, altre volte viene scritta da fior di musicisti che colgono l’animo della gente, nelle sue espressioni più vere, molte volte intime e delicate, ballate dedicate a personaggi che hanno avuto decisamente a che fare con gli stenti della miseria e con vite difficili. Una canzone di quel tipo su tutte relativamente recente, per esempio, può essere The ghost of Tom Joad del «The Boss» Bruce Springsteen, sul protagonista del grande libro di John Steinbeck Furore.

Anche trattando la povertà però, grazie alla musica, è possibile scrivere note semplici e ricche, testi nei quali sono presenti risorse molto più importanti di quelle dei soldi. Si può così esprimere un’abbondanza di emozioni, straripanti tra le note e le parole. Il suono può essere straordinariamente prospero, non dico necessariamente la sequenza musicale, mi soffermerei sulla pura sonorità, la frequenza che giunge alle nostre più o meno sensibili orecchie.

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Guarda il documentario RSI - Organo Serassi di Brusio (Valposchiavo)

Esiste uno strumento musicale che è abbondante per natura, copioso, straripante appunto, a volte fin troppo maestoso e barocco: l’organo. L’organo a mio parere è l’espressione più calzante della ricchezza del suono. Questo strumento è complesso, un capolavoro di ingegneria. Alcuni organi, solo a vederli, senza sentirli suonare, sono l’immagine di una ricca maestosità tecnico-musicale. Vento e metallo, quest’ultimo sapientemente lavorato da secoli da capaci artigiani, hanno creato dei capolavori per la vista e per le orecchie nelle chiese del mondo. Quanto è bello in una visita turistica estiva fermarsi al fresco di una chiesa, sedersi ad osservare i dettagli della complessità di un vecchio organo, tentare di immaginare quali mani sapienti lo hanno costruito e, se si è fortunati, poterlo sentire suonare da qualche capace maestro organista. Ricco è lo strumento, ricco è il suono che ne esce, ricca è l’ambientazione dell’evento.

Ovviamente in queste situazioni non c’è benessere materiale, ma la psiche si rigenera, per ritornare in pace col mondo. La tecnologia nei secoli ha permesso di ridurre le dimensioni di questo strumento musicale, senza nulla togliere alla bellezza delle sue molteplici sonorità. In musica esistono strumenti che, al solo ascoltare poche semplici note da loro fuoriuscite, possono diffondere grande piacere nell’ascolto.

L’ 11 gennaio 1895, a Evanston, nell’Illinois, nacque Laurens Hammond. Dopo un periodo vissuto in Francia, si laureò in ingegneria meccanica nel 1916. A seguito di una serie di fortunate e geniali invenzioni, nel 1933 iniziò a sviluppare l’idea di un organo elettronico. Con l’aiuto di una nuda tastiera da pianoforte e del contabile della sua azienda, organista di chiesa, arrivò a brevettare il 19 gennaio del 1934 il suo organo, il celeberrimo organo Hammond. Negli anni a venire si concentrò su altri brevetti. Fino alla pensione, nel 1960, all’età di 65 anni, avendo già depositato 90 brevetti, spaziando in numerosi campi dell’inventabile umano. Morì nel 1973, con 110 brevetti e decine di costruttori di organi elettrici lanciatisi nella produzione del suo gioiello musicale. Una vera e propria preziosità nel campo degli strumenti musicali, una sonorità bellissima, perfettamente riconoscibile, inimitabile nei musicisti che hanno suonato e continuano ad usare questa tastiera inconfondibile.

Iniziarono i jazzisti, proseguirono gruppi di prog-rock, che hanno scritto con questo strumento pagine incancellabili di storia musicale. Mi soffermerei su quattro tastieristi, senza nulla togliere a decine di altri bravi strumentisti di questo genere. In ordine di nascita, Jon Lord, Richard Wright, Keith Emerson e Gary Brooker. Tre dei quattro purtroppo deceduti, questo è inevitabilmente il problema in cui spesso si incorre narrando di musiche e musicisti di un periodo irripetibile nella storia della musica leggera mondiale.

Jonathan Douglas Lord nacque a Leicester il 9 giugno 1941, fu forse il più grande innovatore dell’organo Hammond. Dopo aver acquisito una formazione al pianoforte classico, con la preponderanza di brani di Bach ed Elgar, si ritrovò nell’ambito di vari gruppi rock’ n’ roll e R&B, ma la vera folgorazione artistica l’ebbe per l’Hammond, dopo aver ascoltato vari organisti jazz. Vari gruppi, dicevo, nel 1967 avvenne la fondazione dei Deep Purple. Ignorò il nascente sintetizzatore Moog, per innovare quel tipo di tastiera, collegandolo ad un amplificatore Marshall per chitarra, per rendere il suono più hard-rock.

Consiglio l’ascolto di «Child in Time», una vera pietra miliare dei Deep Purple e di tutto il movimento musicale prog-rock. Questo pezzo è da considerarsi una 'suite', parte da un semplice, meraviglioso giro di Lord all’Hammond. Una sonorità ricca, ineguagliabile, come solo può essere quella tastiera suonata con basilare maestria. Poi parte la voce di Ian Gilian e la chitarra di Ritchie Blackmore in un crescendo di suoni e vocalizzi con un testo decisamente contro la guerra, sempre in sottofondo Jon Lord e il suo strumento. Un vero capolavoro.

Jon Lord suonò nei Deep Purple fino al 1975. Da lì una brillante carriera in altri gruppi o da solista, fino al suo annuncio di avere un cancro, il 9 agosto 2011. Morì il 16 luglio 2012, un gigante delle tastiere, soprattutto dell’organo Hammond.

Richard William Wright nacque invece a Londra il 28 luglio 1943. Come già scritto nel mio articolo su Syd Barrett, questo signore, insieme a Roger Waters, Nick Mason e allo stesso Syd furono nientepopodimeno che i fondatori dei Pink Floyd, poi arrivò David Gilmour al posto di Syd Barrett. Wright fu un altro maestro delle tastiere, come non ricordare le sue note struggenti all’Hammond in «Atom Heart Mother», una composizione orchestrale da brividi. Un delizioso tappeto di tasti premuti con interventi mirabili e indimenticabili, soprattutto nel 'riff' più famoso all’organo, «Breast Milky», accompagnato solo da un violoncello, che io definirei di struggente, dolce malinconia. Se avrete la pazienza di ascoltare l’intera suite non potete non riconoscerlo, poche note di una semplice, lieve e irresistibile, ancestrale dolcezza. Se tutto ciò non è vera e propria ricchezza sonora, non saprei cos’altro può esserlo. Dice David Gilmour a proposito di Richard Wright: «…il nostro mezzo di comunicazione era la telepatia. Pensavamo alle stesse note senza mai dircelo, una magia… quel che mi è molto chiaro e che con nessun musicista al mondo ritroverò quell’armonia. Ho provato a suonare con altri tastieristi, ma non c’è niente da fare: Richard è insostituibile». Wright morì per un tumore il 15 settembre 2008, e gli ultimi mesi di vita li ha trascorsi sul palco e in studio a suonare con Gilmour che afferma ancora: «… suonava ogni sera come se quello fosse l’ultimo concerto della sua carriera. Era felice e strenuamente attaccato a quel che gli rimaneva da vivere. Non guardo mai il DVD di quei concerti, mi si stringe il cuore. Quando Richard non era sul palco, viveva nelle acque del mediterraneo sulla sua adorata barca a vela. Navigava senza sosta, a volte anche senza meta. Uno spirito libero». Un periodo creativo bellissimo per i due, testimoniato su Youtube da diversi brani ricercabili sotto il nome «David Gilmour/Richard Wright- The Barn Jams», registrate nella residenza di Gilmour, nel Sussex nel 2007, l’anno prima della morte di Wright.

È possibile essere un grande tastierista con una malattia progressivamente deformante alla mano destra? C’è chi ci è riuscito. Un certo Keith Emerson, un altro mago dell’Hammond, oltre che di tutte le altre tastiere. Nato anche lui in Inghilterra, a Todmorden il 2 novembre del 1944, è stato uno dei tastieristi più 'veloci' della storia del prog-rock. Una straordinaria agilità nelle dita, un’abilità eccezionale. Il suo gruppo, lo dice il cognome stesso, furono gli «Emerson Lake and Palmer», anche detti «EL&P». È stato inserito nella «Hammond Organ Hall of Fame», tanto per dire. Sin da bambino, un grande interesse per Bach, musicista che spesso ricorre tra le grandi passioni dei tastieristi di quegli anni, con i suoi capolavori per organo.

Keith in alcune sue performance dei primi anni ’70 arriverà a maltrattare in scena l’organo Hammond fino a distruggerlo, famoso è quel concerto in cui lui pianta dei pugnali nella tastiera, ottenendone dei suoni deformati e strazianti, come se lo volesse far soffrire. Il dominio assoluto dell’uomo sullo strumento, mentre lui agilmente lo suona dal retro, lo salta agilmente da una parte all’altra con le mani attaccate alla tastiera, lo sballotta di qua e di là, ci salta sopra scuotendolo.

Era veloce Keith Emerson, tremendamente veloce, le dita più veloci del progressive rock di quegli anni. Poi la malattia alla mano destra. Per un tastierista del suo livello avere una malattia degenerativa al tessuto nervoso di una mano, che lo costringerà nel tempo a suonare solo con otto dita, può equivalere a morire, spegnersi lentamente ma inesorabilmente dentro. La compagna di Keith Emerson, Mari Kawaguchi, racconta di lui: «Keith odiava essere definito una rock-star o una star del progressive rock. Voleva essere conosciuto come un compositore. Non ha mai ceduto al fascino del successo commerciale. Diceva sempre…io non sono una rock-star, non lo sono mai stato, tutto quello che voglio è suonare…». Così, con la malattia degenerativa alla mano con prognosi di peggioramento, si innescò in lui la depressione che, unita ad altri acciacchi dovuti all’età, lo porteranno alla decisione di togliersi la vita, con un colpo alla testa, nella notte tra il 10 e l’11 marzo 2016 nella sua casa di Santa Monica in California. Una vita per la musica non può più essere vita senza la musica.

Una curiosità su Keith Emerson: se ne avete voglia, tanto per avere un’idea di ricchezza in musica, andate a vedervi il video su YouTube in cui con dei modellini viene rappresentato il suo set di strumenti da concerto. Il titolo esatto è: «Keith Emerson’s set up 1974 – Classic handmade prog keyboards» con in sottofondo il brano «Jerusalem» dei EL&P.

Per finire questa rapida carrellata su alcuni tastieristi di Hammond, chi non conosce il meraviglioso pezzo dei Procol Harum, «A Whiter Shade of Pale»? Anche a non riconoscerlo dal titolo, il sentirlo sa di meraviglia già conosciuta, un brano che tutti noi più o meno abbiamo nella memoria. Le note di Hammond e la meravigliosa voce di Gary Brooker sono parte della storia della musica leggera. In questo brano l’organo è sempre presente, nella sua maestosità e nella sua ricchezza timbrica. Stupendo.

Nato a Londra il 29 maggio 1945, Gary Brooker è l’unico personaggio ancora vivente dei quattro tastieristi di cui ho scritto, ancora in attività. Ci sono altri tastieristi nell’ambito della musica 'prog' che hanno toccato con le loro sapienti dita quel tipo di tastiera: velocemente, a memoria, Rick Wakeman degli Yes, Tony Banks dei Genesis, l’enorme Joe Zawinul dei Weather Report, che meriterebbe un articolo solo per lui, come tutti d’altronde. In Italia qualche nome: Flavio Premoli della PFM, Vittorio De Scalzi, polistrumentista dei New Trolls, Vittorio Nocenzi del Banco del Mutuo Soccorso. Demetrio Stratos, oltre che cantare, spesso si cimentava all’Hammond.

Dimenticherò senz’altro qualcuno, anche se mi rendo conto che si torna sempre a qualche decina di anni fa, un periodo della storia musicale che spesso mi trovo a commentare con qualche mio coetaneo, sentendoci dei privilegiati per aver vissuto in prima persona anni così ricchi di fervente innovazione. Forse però non è giusto pensarla così, perché scava e scava, la ricerca di qualcosa di buono deve avere esiti positivi anche tra la musica cosiddetta 'leggera' dei nostri giorni. Forse.

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