- Categorie: Il male sei in Sport
Carriere stroncate
Lo sport non ci rende immortali
Abebe Bikila, Olimpiadi di Roma 1960
Il male nello sport può sicuramente essere il doping, la corruzione, le scommesse. Ma quanto può essere nocivo per uno sportivo un infortunio, un incidente, quanto ne può condizionare la carriera?
I primi casi negativi sono in qualche modo dipendenti dalla volontà dell’atleta, diciamo che in qualche modo «se lo vanno a cercare»; ma uno stop improvviso e involontario può essere fortemente invalidante nel fisico e nel morale, può arrivare a stroncare di netto tragitti gloriosi di grandi sportivi. Per non parlare poi di esistenze vissute nello sport spezzate tragicamente, a rappresentare il contrasto tra la vita, prorompente in tutte le sue forme, e la morte, la fine, il silenzio, l’assenza.
Un infortunio può interrompere la carriera di uno sportivo, ma da tutto ciò si può rinascere ad una seconda o ad una terza vita, come l’Araba fenice.
Gigi Riva è stato uno dei più grandi calciatori di tutti i tempi, un vero mito; ma soprattutto un uomo, un vero uomo. È bello sentirlo parlare nelle interviste vecchie e nuove, con quella sua voce nasale che costruisce frasi corrette e non banali, e quel pudore di galantuomo d’altri tempi. Roba che adesso, tra i calciatori di oggi, non si riscontra proprio più.Ci sono storie di sport in cui vite di donne e uomini diventano leggenda. Storie di uomini paragonabili a cavalieri senza macchia e senza paura. Visi conosciuti, ripresi in video o fotografati mille e mille volte. Sempre bellissimi, sia nel loro parlare che nei loro gesti atletici. Si intuisce però dentro di loro una bellezza ancora più profonda, forse determinata dalla consapevolezza di essere stati dei predestinati a diventare icone nella memoria popolare di una collettività, assurgendo a ruoli di sempiterni dei, miti forse irripetibili.
Uno di questi è indiscutibilmente Gigi Riva. Nato a Leggiuno, provincia di Varese, il 7 novembre 1944, lombardo che più di così non si può. Orfano prima di padre e poi di madre mentre era ancora molto giovane. Ad un certo punto della sua vita incontra però la squadra del Cagliari e la Sardegna ed è un amore che per lui durerà per tutta la vita.
Gigi Riva, Serie A 1969-70, Cagliari - Bari
Gigi Riva fu primo protagonista dello storico scudetto di quella compagine nel 1970, oltre che alfiere di tante battaglie della nazionale italiana. Ancora quest’anno, 2017 in febbraio, prima di Cagliari-Juventus, è stato premiato dal CONI, nella 'sua' Cagliari, in mezzo al campo in uno stadio pieno di smisurato amore per lui e per le sue antiche gesta. Ma soprattutto, quella era un'arena colma di trasporto infinito nei confronti di un vero uomo. Uno che è riuscito a resistere alle danarose sirene delle grandi squadre (la Juventus gli ha fatto una corte spietata), per tenere fede all’amore per una terra, alla coerenza per il proprio stile di vita. Accontentarsi di essere un eroe moderno, tenendo a bada le tentazioni del dio soldo, non è cosa da poco.
«Rombo di tuono», fu definito dal grande Gianni Brera, e mai soprannome fu più azzeccato. Potente e bello a vedersi nel gesto atletico come un dio greco; quando però esultava per un gol, le braccia non erano rivolte verso il cielo ma verso il basso, verso la terra, verso la vita reale. Spesso nella sua carriera «Giggirriva», come lo pronunciavano i sardi, ha avuto a che fare più volte con il male degli sportivi, gli infortuni, ma lui è caduto e risorto più volte. Come l’Araba fenice, appunto, è sportivamente rinato da una frattura al perone della gamba sinistra procuratosi durante Italia - Portogallo nella Pasquetta del 1967 e da una frattura a tibia e perone, fortunatamente dell’altra gamba, durante Italia - Austria del 1970 al Prater di Vienna, a seguito di un intervento del giocatore austriaco Hof, passato poi alla storia come «il boia del Prater». Ma Gigi Riva riuscì gloriosamente a terminare la sua carriera e ora, pur con i suoi acciacchi dovuti all’età, è ancora vivo, più che mai.
Un incidente, un tragico ed incomprensibile fatto può invece improvvisamente interrompere la vita di un uomo. Accadde il 18 gennaio 1977, quel giorno morì un grande amico di Gigi Riva, spararono a Luciano Re Cecconi. Riva e Re Cecconi erano accomunati dalle origini modeste, dalla fatica di emergere, da un carattere profondamente saggio e schivo. Anche lui lombardo, nato a Nerviano, soleva spesso dire, a proposito del suo cognome, che per un Re ci deve sempre essere un Cecconi che fatica, parafrasi del suo modo di essere in campo e, volendo, vera e propria metafora di vita. Furono, e lo sono ancora, entrambi grandi miti per i propri tifosi, ma il calciatore della Lazio morì a 28 anni, lasciando moglie e due figli piccoli, in un contesto al confine tra un noir, un racconto tragicomico e una vicenda da teatro dell’assurdo. La versione ufficiale, confermata dal successivo processo giudiziario, sostiene che quel maledetto giorno Re Cecconi si recò presso la gioielleria del Tabocchini simulando per scherzo una rapina e il gioielliere puntò la sua Walther calibro 7,65 prima sul suo amico Ghedin poi, girandola sullo sventurato, partì un colpo che ferì a morte il giocatore.
Il giornalista Maurizio Martucci nel suo libro inchiesta del 2012 sostiene che, traendo spunto dagli atti processuali, la vittima non ha mai pronunciato per scherzo le parole «Questa e una rapina!» e che probabilmente il colpo partì da quell’arma a seguito di altre possibili azioni condotte dal Tabocchini. Chi lo conosceva, sa che il povero Re Cecconi era una persona saggia, posata, uno che rimproverava spesso i compagni se qualche volta eccedevano nei comportamenti in campo e nella vita. Insomma, uno che pareva impossibile si recasse presso un gioielliere a fare uno scherzo di così cattivo gusto, nel clima di quegli anni in cui spesso avvenivano sanguinose rapine in negozi di quel genere. Durante il processo si mossero 'lobbies' di vario tipo; insomma alla fine il Tabocchini fu assolto per legittima difesa, processato dopo soli diciotto giorni dal fatto, ma intanto ormai il male, il grande male, era fatto.
Devi dimenticarti della tua ultima maratona prima di provarne un’altra. La tua mente non saprà dirti cosa ti aspetta», diceva Frank Shorter, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Monaco 1972. Una frase famosa di Emil Zatopek, cecoslovacco vincitore dei 5000 metri, 10000 metri e maratona alle olimpiadi di Helsinki è invece questa: «Siamo diversi, fondamentalmente, da altri uomini. Se vuoi vincere qualcosa, corri i 100 metri. Se vuoi vivere un'esperienza, corri una maratona».
Sera del 10 settembre 1960, Olimpiadi di Roma. Un etiope scalzo si avvia a vincere la maratona. Dopo l’arrivo vittorioso quell’atleta non si ferma, continua a saltellare e fare esercizi di defaticamento. Quell’uomo è Abebe Bikila. Fu un arrivo di maratona corso in un'atmosfera magica, di sera, al buio, nei viali storici di Roma illuminati dalle fiaccole, col traguardo sotto l’arco di Costantino. Una serata ben documentata nel breve video su Youtube «Olimpiadi di Roma 1960 La Maratona». Costui si presenta alla partenza vantando un tempo in questa distanza che sarebbe record mondiale, ma nessuno gli crede. Alla fine tutti dovranno dargli credito per forza. La medaglia d’oro è sua, indiscutibilmente, vinta con la sicurezza di un dominatore. Al suo rientro in patria, l’imperatore Hailè Selassiè lo nominerà «Soldato scelto».
Dominatore, dicevamo, e infatti quattro anni dopo alle olimpiadi di Tokio Abebe Bikila si ripete, altra vittoria olimpica, altra trionfale medaglia d’oro, questa volta con le scarpe.
Abebe Bikila, dopo l'incidente automobilistico
Dopo il bis olimpico ci riprova, a Citta del Messico 1968, ma quella volta l’altitudine, gli infortuni e l’età lo costringoro al ritiro. Cosa può voler dire per un maratoneta, possiamo pure affermare «il» maratoneta per antonomasia, un incidente automobilistico che impedisce l’uso delle gambe? Ecco il male assoluto nello sport. Successe proprio ad Abebe Bikila, nel 1969, nei pressi di Addis Abeba, alla giovane età di 37 anni. Ma questi non si perse d’animo, continuò a gareggiare nel tiro con l’arco, nel tennistavolo, perfino in una gara di slitte in Norvegia. Partecipò anche all tiro con l’arco alle paraolimpiadi del 1972. Ma la morte lo colse per emorragia cerebrale nel 1973, all’età di 41 anni. Forse rimanere paralizzato dalla vita in giù per un maratoneta è un destino troppo crudele, come se il Dio del Male si fosse preso una rivincita per la troppa vita conquistata nei chilometri suggellati dalla fatica, dal dolore ai piedi scalzi, dall’enorme gioia del trionfo.
Nello sport si ottengono grandi e piccole soddisfazioni. Dal celebre campione allo sconosciuto e scarso amatore, l’importante è muoversi, conquistare sensazioni dal proprio corpo che comunicano al cervello che sei vivo, attivo. Forse quando si pratica sport ci si illude anche, qualche volta, di poter essere immune dalle malattie, di entrare a far parte di una ristretta cerchia di esseri immortali. Gli sportivi praticanti spesso ci appaiono così, quando li ammiri nelle loro gesta sembra impossibile che possano essere colpiti dal male fisico. Ma sono ovviamente anch’essi esseri umani, e quando si viene a conoscenza di eventi traumatici che li riguardano si rimane spiazzati, sembra quasi impossibile. La morte stessa sembra che non faccia per loro. Ma forse è proprio così, forse da qualche altra parte continuano a deliziare spettatori di diverso genere, un gradino più alto rispetto a noi comuni mortali. I miti non ci lasciano mai veramente. Ma chissà, magari non muoiono neanche gli sconosciuti appassionati, i tanti «atleti della domenica», che poi non è assolutamente vero che praticano sport solo alla domenica. Ci sarà pure una specie di paradiso anche per loro. Ci deve essere.