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Il doping
Un vero problema, non solo per i professionisti
Deludere le aspettative di chi crede in te e ti considera un semi-dio è uno degli eventi più brutti che possa capitare ad un campione dello sport.
L’ansia da prestazione è una sensazione che può travolgere chiunque, in qualunque attività della vita di tutti i giorni; questa patologia può essere riferita alla meta che ciascuno di noi si prefigge, al suo raggiungimento, alla soddisfazione personale di averla raggiunta. Quando tutto ciò viene ricondotto a se stessi e l’obiettivo è minimo, ci si accontenta di fare quello che si riesce a fare. Quando invece lo scopo coinvolge interessi economici altrui, un pubblico che ti segue, un contorno nazionale, europeo o mondiale, le cose cambiano. La pressione psicologica è enorme. Questo ovviamente vale in tutti i campi dell’attività umana. Quando gli altri ti considerano il primo, tu hai il dovere di essere sempre il primo. Ma il primo è uno solo.
Vincere a tutti i costi, per mantenere gli sponsor, per avere quella meravigliosa sensazione di essere idolatrato dai tuoi tifosi. Ma nell’agonismo esasperato, tutti vogliono vincere, tutti vogliono assurgere all’Olimpo dei semi-dei. Cadere in basso fa male, troppo male. Ed è così che nello sport molti, troppi, finiscono per precipitare in un male peggiore: la piaga del doping.
Ormai si sente ripetere dal pubblico di quasi tutti gli sport la fatidica frase: «sono tutti drogati!». Come dare torto alla gente quando anche Marco Pantani, il 'pirata', si scopre essersi drogato. Una storia di un ciclista fermato per doping il venerdì mattina mentre era in testa alla classifica del giro d’Italia 1999, che avrebbe sicuramente vinto due giorni dopo durante la passerella finale a Milano. Fermato così, allontanato dal Giro quasi fosse un delinquente, dopo avere vissuto una carriera sconfiggendo avversari, incidenti, cadute, ricadute e rinascite. Ma quel venerdì mattina la botta psicologica. Poi la depressione, la cocaina, e tutti sanno come andò a finire, quel maledetto giorno di San Valentino del 2004, morto in solitudine in quel residence di Rimini.
Le aspettative del pubblico, dei tifosi, possono anche diventare speranze vitali, nel vedere uno sportivo che sconfigge la malattia che fa più paura.
18 Luglio 1995, Tour de France. Si corre la quindicesima tappa, da Saint-Girons a Cauterets. Nella discesa del Colle di Portet-d’Aspet muore un ciclista di 25 anni, Fabio Casartelli. Lascia la moglie e un figlio nato pochi mesi prima, il 13 maggio. Casartelli al momento della caduta non aveva il casco, da quel momento partì il percorso che portò alla sua obbligatorietà nel ciclismo. Tre giorni dopo, all’arrivo della diciottesima tappa, un corridore texano della stessa squadra del povero ragazzo, arriva primo al traguardo, alzando le braccia al cielo in un commovente gesto per ricordare il compagno appena scomparso. Quel corridore si chiama Lance Armstrong, e diventerà per i tifosi un Highlander, un immortale. A quel corridore nell’ottobre del 1996 viene diagnosticato un tumore ai testicoli, sconfitto nel 1998. Costui diventa un testimonial della lotta a questa malattia, promuove fondazioni, lancia il famoso braccialetto giallo, torna a correre. Quel ciclista dal 1999 al 2005 vince il Tour de France, lo vince per ben sette volte di fila, diventa un esempio planetario di come si possa sconfiggere il cancro, regalando grandi speranze. Il 24 agosto 2012 però Lance Armstrong fu squalificato a vita per doping e gli furono tolti tutti i titoli vinti dal 1998 in poi, compresi i sette Tour de France. Tutto finito, tutto doping, tutto un bluff. Già, e così la gente dice «sono tutti drogati!».
Come drogato e ri-drogato diventerà un ragazzo altoatesino, Alex Schwatzer, un marciatore. Vince le Olimpiadi di Pechino 2008, si fidanza con Carolina Kostner, la campionessa pattinatrice esempio di perfezione, grazia e bellezza. Una coppia esemplare. Belli, giovani, entrambi campioni pur in diverse specialità. Un avvenire radioso. Alle Olimpiadi 2012 viene scoperto drogato, viene coinvolta in un modo assurdo anche la fidanzata. Una vita, quasi due, distrutte. Quasi due perché la Kostner si riprende alla grande, coinvolta e condannata innocente. Quel ragazzo si sarebbe potuto accontentare di un piazzamento, due medaglie d’oro di fila alle Olimpiadi è difficilissimo vincerle. Ma bisogna essere sempre primi, lo chiedono gli sponsor, lo chiede il mondo, lo chiede chissà chi. Ci riproverà nel 2016, per tornare grande alle Olimpiadi, affidandosi totalmente a medici e allenatori onesti, sottoponendosi a controlli scrupolosi. Non ci riuscirà, lo squalificheranno ancora, dopo aver ancora vinto gare importanti. Una strana squalifica, molte analogie col caso Pantani. Ci vuole un grande equilibrio per rimanere sani di mente dopo queste vicende per un giovane atleta. Un’altra carriera sportiva spezzata, finita.
Da Ben Johnson ad Alex Schwazer, i più famosi casi di doping alle Olimpiadi (Eurosport)
Come dimenticare ancora il canadese Ben Johnson, campione e primatista mondiale dei 100 metri nel 1987, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Seul nel 1988 con un altro fantastico record del mondo, squalificato tre giorni dopo per assunzione di stanozolo, in fuga da Seul anche lui come un ladro. Al termine della squalifica, il rientro alle gare nel 1991, senza successo. Ben Johnson venne trovato positivo ancora nel 1993, e questa volta fu squalifica a vita.
Ma miriadi ormai sono i casi di assunzione di sostanze dopanti, cronaca ormai quotidiana nel mondo dei professionisti dello sport. Quello che però sfiora l’assurdo è un male inutile e pericoloso, il doping tra gli amatori. Logico che il marketing di queste sostanze prevede che un consumo di massa, aumenti il giro d’affari e crei profitti notevoli per chi produce e diffonde questo male assoluto dello sport.
Qualche anno fa, alla partenza della maratona di Parigi, i cestini furono trovati pieni di siringhe. Sono numericamente molti di più coloro che praticano lo sport per diletto rispetto a quelli che lo praticano per professione; tanto per usare un termine del mondo economico-finanziario, il «core business» è lì, usando come specchietto per le allodole i grandi campioni.
Assurdo è pensare che per un podio che prevede un cesto alimentare di prodotti locali qualcuno faccia ricorso a sostanze dopanti. Purtroppo nel variegato mondo della stupidità umana esiste anche questo. Tutto ciò significa però barare soprattutto con se stessi, come quelli che nelle maratone prendono il metrò o si fanno dare passaggi in auto in modo scientifico eludendo i controlli, tagliando chilometri di percorso. Che senso ha? Se uno pratica uno sport per salute o mera soddisfazione personale ciò non ha proprio nessuna spiegazione logica. Ma vuoi mettere battere il tuo compagno di squadra o il tuo amico! Vuoi mettere veder comparire in classifica un tempo che senza ausili irregolari mai avresti potuto ottenere! No, non ci siamo.
Senza voler fare a tutti i costi i moralisti, usando un po’ di cinismo, si può tranquillamente affermare che un professionista che si dopa, in un ambiente in cui lo fanno in molti, lo fa per 'a pagnotta', magari anche per mantenere la propria famiglia nel caso di gregari o professionisti di caratura minore. Ma un amatore no, non può. Non può per non offendere lo sport, se stessi, gli altri e la capacità cognitiva dell’essere umano, se ancora esiste. Ma non fraintendetemi: la stragrande maggioranza degli sportivi amatori non fa uso di queste sostanze, ma basta una minoranza di cretini per far pensare ancora una volta a molti sportivi da poltrona: «Sono tutti drogati!».