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Il domani dell'uomo fra paura e speranza
Il cinema fantastico non è solo fabbrica di mostri, ma anche occasione per riflettere sul destino del mondo
di Ivan Mambretti
E.T. l'extra-terrestre
Inghilterra, capodanno del Novecento. Uno scienziato si presenta malconcio al cenone dei colleghi. A costoro che, allibiti, gli chiedono da dove arrivi, egli palesa una verità rivoluzionaria: non arriva da nessuna parte, almeno in senso fisico. Semplicemente, ha sperimentato la macchina del tempo compiendo un incredibile viaggio nel futuro.
E ha visto cose che noi umani non possiamo immaginare. Popoli ridotti allo stato vegetativo, larve vaganti senza più iniziativa né desideri in attesa di fare da pasto agli avidi moloch che le allevano come carne da macello. Il film è L'uomo che visse nel futuro, ispirato alla narrativa fantascientifica di H. G. Wells, che con Verne, Orwell e Asimov forma uno storico quartetto di scrittori col pallino del futuro (anche se in alcuni casi, con l'andar degli anni, il loro futuro... è già passato, come il "1984" di Orwell.
Da sempre il futuro è oggetto di indagine non solo da parte di profeti e astrologi, ma anche di intellettuali e artisti, che si interrogano sulla sua imponderabilità. Che cos'è il futuro? Come possiamo definirlo? O meglio: è definibile? E ancora: esiste veramente? Diceva Nietzsche che il futuro è una nostra proiezione mentale in grado di influenzare il presente e alterare la percezione del passato. In pratica, mentre il presente è l'attimo fuggente che registra a modo suo il passato nella nostra memoria, il futuro è un quid che non c'è ancora ma che pure ci supera di istante in istante. È un misterioso non-luogo che ci illudiamo di materializzare parlandone. Per Eleanor Roosevelt, first lady americana negli anni della Grande Depressione, "il futuro appartiene a chi crede alla bellezza dei suoi sogni". Un'affermazione all'insegna dell'ottimismo che non è certo la regola del cinema di fantascienza, dove prevale la paura dell'ignoto, spesso rappresentato da mostri e alieni più ridicoli che spaventosi. Una rivalutazione seria dell'alieno ci è venuta da Steven Spielberg, che ne ha fatto un tenero traghettatore verso nuove conoscenze: in E.T. e in Incontri ravvicinati del terzo tipo gli uomini guardano in cielo alla ricerca di quella salvezza che non sperano più di trovare sulla Terra. Le pellicole importanti ambientate nel futuro sono un'infinità: citiamo a caso Metropolis, cupa premonizione dei rischi di un progresso meccanico fuori controllo; Fahrenheit 451, la temperatura che fa bruciare i libri, ritenuti pericolosi in una società video-sorvegliata e dominata dalle immagini; Blade Runner, dove un cacciatore di replicanti si muove in una megalopoli multietnica piovosa e mefitica; Non lasciarmi, sul doloroso destino di esseri clonati per la chirurgia, nel senso che le parti dei loro corpi sono pezzi di ricambio per i malati.
Apocalisse prossima ventura
Nato in Francia dall'inventiva di Méliès, il genere fantastico ha trovato negli States il suo terreno più fertile. Poiché lo spazio tiranno ci costringe a una spietata selezione, daremo conto di pochi film in cui il punto di vista sul futuro è in qualche modo diversificato. Uno di questi è Il pianeta delle scimmie, che ha avuto numerosi sequel e tentativi di imitazione. Racconta di un'astronave che per un guasto tecnico si perde nel cosmo. L'equipaggio sopravvive all'incidente, ma si ritrova catapultato in uno strano mondo popolato da oranghi e bertucce. Il comandante, uomo di scienza che vuol saperne di più, fa una drammatica scoperta: gli animali sono più intelligenti degli umani, che vengono tenuti soggiogati in attesa della loro definitiva estinzione. Sarà grazie a una cavalcata del protagonista lungo un litorale che si svelerà l'arcano: affiorata dalla sabbia, gli appare la parte superiore della Statua della Libertà. L'incredulità cede presto alla consapevolezza. Sì, gli astronauti sono casualmente tornati sulla Terra, ma parecchi millenni più tardi, in un'epoca in cui l'uomo ha distrutto ogni equilibrio naturale. Una probabile catastrofe nucleare lo ha fatto regredire provocando un vero e proprio rovesciamento del rapporto uomo-animale.
Il messaggio del film è apocalittico ma non inverosimile. La Terra è fatta di esseri viventi che nascono, si evolvono e si estinguono (come i dinosauri). I tempi geologici sono incalcolabili: non si sa quando, ma la fine toccherà anche all'uomo.
Il cinema è sempre stato attratto dall'inquietante prospettiva di un mondo post-atomico sin già dal periodo della "guerra fredda": vedi il vecchio bianco e nero de L'ultima spiaggia, dove i sopravvissuti si attrezzano per ritardare gli effetti letali delle radiazioni, o le recenti tinte fosche di The Road, odissea di un uomo e un bambino fra orrori e devastazioni.
Il pianeta delle scimmie 1968
Premonizione e azione
La zona morta racconta la storia di un giovane che si risveglia da un lungo coma con uno straordinario dono: può prevedere il futuro di chiunque entri in contatto con lui. Possiede insomma lo "shining", la kubrickiana "luccicanza" (riciclata anche da Clint Eastwood in Hereafter). Il brivido corre soprattutto nella seconda parte, quand'egli scopre che il prossimo inquilino della Casa Bianca è un guerrafondaio. Lo "vede" infatti entrare nella stanza dei bottoni, lasciarsi cogliere da delirio di onnipotenza e premere il tasto che scatenerà il terzo conflitto mondiale. Da qui la lotta contro il tempo per cercare di intervenire sul futuro, deviarne il corso, fermare quella mano. Il giovane passa così dalla previsione all'azione ponendo un interrogativo nuovo e curioso: se si conosce il futuro, è possibile modificarlo? È anche la tesi di Terminator, nome del cyborg spedito indietro nel tempo a uccidere la madre che porta in grembo colui che sarà l'organizzatore della resistenza contro la dittatura delle macchine.
Guardiani del destino
Minority Report narra le imprese della cosiddetta "unità pre-crimine" che, con l'aiuto dei sogni cognitivi di alcuni veggenti immersi in un liquido para-amniotico, ha facoltà di prevenire omicidi, salvare vite umane, anticipare le mosse di ladri e assassini. La vicenda si complica quando il comandante di queste squadre d'azione presagisce di essere lui stesso sul punto di commettere un delitto. Urge quindi trovare una soluzione per modificare atti e attimi del divenire. Poiché l'errore giudiziario non può essere evitato neppure dai vaticinanti, il film denuncia un suo limite: non considera l'ipotesi che un delinquente, già rinchiuso per ragioni di sicurezza, possa redimersi in extremis. Un'allusione al libero arbitrio che troviamo anche ne I guardiani del destino, dove un esercito di misteriosi personaggi (angeli o demoni?) sorveglia le azioni degli uomini e le pilota in direzione di un superiore ordine esistenziale. Ma anche i guardiani hanno un ostacolo: si chiama "caso", e scombina i loro piani. Caso e destino a confronto, dunque. Peccato che i soverchianti effetti speciali di questi film mirino a colpire l'occhio dello spettatore anziché la sua mente. Gli assunti infatti sono spesso tutt'altro che banali e fanno riflettere su come il rapido progresso tecnologico collochi oggi nella sfera del possibile ciò che solo ieri era pura fantasia.
C'è comunque chi tratta la materia in modo semiserio, come la premiata ditta Spielberg&Zemeckis, ideatrice del fortunato Ritorno al futuro. Un ragazzo che vive negli anni Ottanta si fa ospitare a bordo della macchina del tempo costruita dal solito scienziato pazzo per un viaggio all'indietro di una trentina d'anni: vuole incontrare i suoi potenziali genitori, vederli studenti come lui e trattarli da coetanei. Ma soprattutto vuole farli innamorare e sposare per essere sicuro di... nascere! Una prova del tono scanzonato della pellicola è la risata che investe il protagonista quando, alla domanda dei suoi amici di trent'anni prima su chi sia il presidente Usa del suo reale tempo, la risposta viene presa per una battuta: Ronald Reagan (che, per chi non lo sapesse, negli anni Cinquanta era un attore hollywoodiano di quart'ordine).
Un albero senza tempo
Il cinema di Terrence Malick, autore dallo sguardo visionario e poetico, si caratterizza per una insinuante astrusità mista alla capacità di comunicare suggestioni rare proprio in virtù della mancanza di nessi logici. È il caso di The Tree of Life, film non certo di fantascienza ma neppure catalogabile in altri generi. L'arduo cimento è forse con la filosofia, che è la disciplina più refrattaria alle manipolazioni del linguaggio e delle tecniche del cinema. Il regista trae spunto da una routine familiare nell'America anni Cinquanta per avventurarsi nella descrizione delle origini del mondo e interrogarsi sul mistero della creazione, sul senso dell'esistenza, sull'attesa della morte. Viene ritratta la piccolezza dell'uomo sperduto in un universo che non conosce e che non potrà mai conoscere, ma del quale si sente parte integrante, così da vivere nell'illusione di compenetrare l'assoluto, fra laicità e misticismo, senso etico ed estetico, materia e spirito. Spettacolari processi cosmogonici si sviluppano in chiave psichedelica, mentre passato e futuro, spazio e tempo, armonia e caos si intrecciano in creazioni che molto devono alla ricerca metafisica di Kubrick in 2001.
L'albero della vita
Memorabili ad esempio quelle sagome umane che passeggiano smarrite sul rarefatto lido di un limbo atemporale. Unica certezza del futuro dell'uomo è la morte che però, in quanto normale manifestazione dell'Essere, non è da temere: lo suggerisce il soave arpeggio degli archi che accompagnano l'Amen del "Requiem" di Berlioz. L'albero della vita di Malick è un prodotto complesso, problematico, misterioso. Ma da accettare per quello che è. Un po' come si fa con la musica: non è necessario comprenderla, basta ascoltarla ed emozionarsi. Ignorato dal grande pubblico, il film è stato oggetto di forti contrasti in sede critica e molti commentatori hanno ritenuto il risultato inferiore alle ambizioni dell'autore. Chissà invece che non sia la classica opera sperimentale del genio incompreso che anticipa i tempi. Che sia cioè cinema del futuro.