Gli animali
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Il disprezzo per la natura genera mostri
Fuori e dentro di noi
«La grande onda di Kanagawadi» di Hokusai
Per gli artisti di ogni tempo e luogo il viaggio attraverso il mare è uno dei modi più spettacolari per raccontare la vita interiore degli uomini.
La pittura la fa da padrona. Pochi esempi. La grande onda di Kanagawadi di Hokusai, le albe impressioniste di Claude Monet, le spiagge di Van Gogh, i ritratti della solitudine di Edward Hopper. Tema ghiotto anche per i musicisti, da Beethoven a Wagner, da Debussy a Ravel, da Charles Trenet a Donovan. E per poeti e scrittori, da Omero a Hemingway, da Conrad ai «Malavoglia» di Verga,...
Il mare profondo e infinito. Una meraviglia della natura. Ma di una natura che sa essere anche insidiosa. Come una fragile imbarcazione in mezzo all’oceano che confina col cielo, così l’umana esistenza non è mai abbastanza solida per fronteggiare le avversità, mai sicura delle proprie potenzialità, sempre in dubbio se il porto è vicino, se la destinazione sarà una vittoria o una sconfitta, se la vita continua o dietro l’angolo si cela il buio della morte. Sono questi i temi di uno dei più celebrati romanzi della narrativa del mare, «Moby Dick», dello scrittore newyorkese Herman Melville, opera metaforica dove trovano posto la predica religiosa, il gusto epico, l’anelito alla verità, il senso di colpa, la speranza nella salvezza. È la storia dell’uomo che si illude di piegare la natura ma ne viene sopraffatto. Un esempio di alta letteratura che ci insegna come il romanticismo non sia un semplice periodo artistico e culturale, ma una condizione esistenziale eterna quanto il tempo. Che comprende tutto, l’essere e l’essenza delle cose, la storia grande e piccola, lo scontro fra ragione e sentimento, le ansie e le paure, il rischio di perdere e di perdersi.
Il terrore viene dal mare
La lotta materiale fra il temerario e inflessibile Achab, capitano della baleniera «Pequod», e il gigantesco implacabile cetaceo si fa lotta spirituale fra il bene e il male. Il regista statunitense John Huston, nel 1956, ricava dal capolavoro di Melville un degno film dal titolo omonimo con l’aggiunta «la balena bianca». Achab (impersonato da Gregory Peck) nella sua ultima spedizione contro il mostro ha perso una gamba e promette ora un compenso a chi lo aiuterà a catturarlo. L’impresa ha inizio ma sul comandante grava una maledizione: morirà al termine del viaggio intrappolato in un canapo. Incurante della profezia, egli persegue il suo obiettivo aspettando il momento giusto per infliggere alla balena il colpo di grazia. Ma come in ogni buona storia che si rispetti, la profezia si avvera: alla fine Achab resta impigliato proprio nei canapi usati per avvolgere l’enorme animale sul punto di essere catturato. E muore strangolato non prima di aver visto affondare barca ed equipaggio.
Anche la piovra di «20.000 leghe sotto i mari» affiora in superficie per ricordarci la forza misteriosa e irresistibile della natura. Il regista americano Richard Fleischer fa del romanzo di Jules Verne, anch’esso ottocentesco, un discreto adattamento cinematografico. Ma il polipone costituisce solo un episodio del film, perché per il resto non vi è altro scopo che emozionare il pubblico dei ragazzi, destinatari di questo prodotto non a caso targato Walt Disney.
La miglior risposta del Novecento ai mostri marini sopra descritti ci viene da «Lo squalo» di Steven Spielberg, che attinge da un romanzo di Peter Benchley, scrittore non paragonabile né a Melville né a Verne. Perciò il merito e il successo sono tutti di Spielberg. Nel capofila degli shark-movie lo squalo, dopo aver maciullato alcuni bagnanti di una località balneare facendo correre a fior d’acqua la nera pinna, mostra finalmente le sue fauci ed è subito terrore, sgomento, incubo. Gli uomini prendono coscienza dell’ignoto mondo degli abissi, dove tutto è difforme e deforme. Lo squalo simboleggia la collera e la ribellione della natura contro l’incuria e le ingiurie degli uomini, mai come nel nostro tempo colpevolmente artefici di inquinamenti e altri disastri ecologici. Il feroce dominatore degli oceani si fa in tal modo causa, riflesso e coscienza dei nostri errori. Errori quasi sempre di matrice scientifica. Di quella scienza che, alimentata dall’arroganza e dalla sicumera, può sfuggire di mano, farsi incontrollabile e portare il pianeta alla rovina. Da antologia (ma soprattutto da brivido!) la scena del cacciatore di squali che lungo il viscido pavimento della barca scivola direttamente nella bocca spalancata del mostro, che lo accoglie per stritolarlo coi suoi denti affilati come lame di rozze spade.
Quando la paura mette le ali
Per l’uomo non c’è scampo. La paura non emerge solo dal mare. Precipita anche dal cielo. Il monito più significativo ci giunge da Alfred Hitchcock, regista di «Gli uccelli», altro libero adattamento cinematografico, stavolta da un racconto di Daphne Du Murier. Tutto comincia in un negozio di animali nel centro di San Francisco. Qui si incontrano casualmente un aitante avvocato e una bionda rampolla della borghesia cittadina. Lui finge di scambiarla per una commessa e la provoca ordinandole una coppia di 'love birds' (inseparabili) per il compleanno della sorellina. La donna, subito sedotta, decide di recapitarli di persona all’avvocato per fargli una sorpresa. Nel raggiungere in barca il porticciolo della baia di Bodega Bay, dove lui trascorre i weekend in famiglia, la donna viene inspiegabilmente attaccata e ferita da un gabbiano. È solo la prima di una crescente serie di aggressioni: stormi di minacciosi uccelli turberanno d’ora in avanti la tranquilla routine della baia.
Alla luce degli odierni prodigi della grafica computerizzata, gli effetti speciali usati dal mago Hitchcock fanno probabilmente sorridere le nuove generazioni. Eppure l’artigianato hollywoodiano d’epoca è egualmente efficace e, quel che più conta, restituisce al film quel calore e quella genuinità che la tecnologia disperde. Anzi, i vecchi trucchi amplificano la ricchezza del contenuto e dei sentimenti. La suspense sta tutta nella mancata spiegazione del comportamento degli uccelli, quasi a voler insistere sulle mosse imprevedibili della natura offesa.
Il film ci trascina verso i territori dell’horror e della fiaba nera. Non c’è musica, ma la trama si sviluppa come uno spartito: l’andante iniziale, il trepidante intermezzo, il crescendo finale. Il tutto per portarci a riflettere sui nostri rapporti col mondo fisico, per avvertirci che non lo conosciamo come ci sembra. Rapporti considerati sotto ogni possibile visione: cosmica, filosofica, scientifica, psicanalitica. Cosa prova l’uomo nel sentirsi impotente, abbandonato e con l’universo contro? O di fronte a una possibile legge superiore che giudicherà le sue azioni?
Turbamenti che si concretizzano nell’enigmatico moltiplicarsi di uccelli di varia specie, che rappresentano il senso nascosto delle cose (memorabile la fuga dalla scuola dei bambini guidati dalla maestra). Che sia in atto una punizione biblica? Vuoi vedere che gli uccelli impagliati nel motel di Norman Bates in «Psyco» si rianimano ora per consumare una sorta di vendetta divina? In «Gli uccelli» la scena madre - in realtà una delle tante - non è girata sotto la doccia ma in una soffitta. Qui gli uccelli fanno irruzione dopo aver beccato fino ad abbatterla la porta d’ingresso scagliandosi sulla povera donna, oltre tutto in odore di stregoneria presso la gente del porto.
Hitchcock ha costruito un vera opera di arte cinematografica. 'Cinema allo stato puro', anche così può essere visto e letto il suo film. Le ultime immagini sono apocalittiche, ma attraversate da un filo di speranza. Una sequenza quasi onirica inquadra l’auto che lentamente si allontana e si fa largo fra schiere di volatili. Gli uccelli sono stranamente fermi, ma al posto delle musiche enfatiche che solitamente accompagnano il finale dei film, c’è solo l’eco ossessiva di voci gracchianti. Brutto segno: la loro ira potrebbe esplodere da un momento all’altro.
Cani, lupi e il Cappuccetto Rosso moderno
Il pericolo può giungere anche da un luogo non sospetto come l’ambiente domestico. Ce lo insegna «Cujo», che il poco noto regista Lewis Teague ricava dal molto noto scrittore Stephen King. Cujo è un San Bernardo, cane buono per antonomasia, proverbialmente preposto alla salvezza degli uomini dispersi nella neve. Qualche lettore potrebbe a questo punto ricordare Beethoven, il bravo e divertente San Bernardo dell’omonimo film per ragazzi di Brian Levant. Ma il paragone non regge. Con Cujo c’è poco da scherzare. Altro che film per ragazzi! Qui ci troviamo a seguire una vicenda claustrofobica e ripugnante dove la fanno da padroni latrati laceranti, getti di sangue, bave schifose. È un mix di fantasy e horror. Morso da un pipistrello che gli trasmette la rabbia, Cujo fa passare seri guai a una malcapitata mamma con figlio intrappolati in automobile. La furia dell’animale non dà tregua ai due poveretti. E il cagnaccio si fa simbolo di un’ancestrale entità maligna davanti alla quale soccombe l’umanità indifesa.
Meno male, comunque, che anche i cani dei film sono quasi sempre amici dell’uomo: da «Lassie» a «Rin Tin Tin», da «Hachiko» a «Rex», dai cani dei romanzi di Jack London ai 101 dalmata disneyani ecc. Ma è abbastanza lungo anche l’elenco cinematografico dei cani assassini e dei lupi famelici che agiscono da soli o in branchi, contaminati da virus che ne modificano il comportamento, oppure indemoniati o più semplicemente idrofobi, come nel caso di Cujo. Il regista irlandese Neil Jordan, con «In compagnia dei lupi», attualizza in chiave adulta la favola di «Cappuccetto Rosso» strizzando l’occhio prima di tutto alle pellicole sulla licantropia. Potremmo definirla un’interpretazione simbolica della crescita fisica e psicologica degli uomini, di quella fase delicata e fragile in cui l’adolescente scopre la sessualità. A una graziosa ragazzina inglese piace molto dormire e i suoi sogni sono popolati da giocattoli che improvvisamente prendono vita e si trasformano in animali feroci come lupi nella foresta. Ai racconti della nonna la fanciulla crede in totale fiducia, ma vuole anche conoscere e affrontare la realtà coi suoi rischi: sa che non dovrà mai abbandonare la retta via e al tempo stesso dovrà cercare di conoscere gli uomini, che si comportano secondo il motto di Hobbes 'homo homini lupus'.
I termini del conflitto interiore di questo novello 'Cappuccetto Rosso' sono rappresentati dall’affetto della nonna, che ancora la vede bambina e le consiglia di non fidarsi dei maschi (loro, il pelo, al contrario dei lupi, ce l’hanno 'dentro'), e dalla malvagità trasmessa dai lupi, che simboleggiano il sesso, cioè qualcosa di ancora indefinito, ma già carico di tensioni. Il regista è abile nel ricreare un’atmosfera tetra e surreale. Notevole la messa in scena dei racconti della nonna, veri e propri mini-film nel film, in alcuni casi ironici e leggeri, in altri spaventosi e scioccanti.
Nel segno di Darwin
«King Kong», il gorilla per eccellenza della storia del cinema, mix di bestia feroce e tragico anti-eroe, vanta numerosi sequel a partire dall’originale del 1933, firmato da Merian C. Cooper. Che resta il migliore perché coniuga gli effetti del bianco e nero col fascino dei film della memoria collettiva.
Sono gli anni della Grande Depressione. Una troupe americana in trasferta su un'isola misteriosa per girare un film d’avventura, durante la traversata in mare, si incaglia per una burrasca sugli scogli di una terra governata da un enorme scimmione. Mentre i suoi sudditi gli stanno per offrire in sacrificio una giovinetta, i cineasti riescono a catturare il grande animale, che portano con sè a Manhattan per farne un fenomeno da baraccone. Ma spezzate le catene, il gigante dal fitto pelo nero fugge inerpicandosi sull'Empire State Building dopo aver ghermito la bella della quale si è innamorato. Intorno al grattacielo si scatena un frenetico attacco aereo per uccidere il mostro, ma i velivoli vengono spazzati via come mosche dalle sue zampate. La ragazza, che passa pian piano dal terrore alla tenerezza per quell’animale che le dimostra tanto affetto, fa rivivere il mito della Bella e la Bestia.
E se alla fine King Kong soccombe, non così la colonia di primati del film di fantascienza di Franklin Schaffner «Il pianeta delle scimmie», sospeso fra apocalisse e mutazioni antropologiche. Un'astronave precipita su un pianeta sconosciuto. Usciti dallo stato di ibernazione, i membri dell’equipaggio lasciano il veicolo spaziale prima che si inabissi nelle acque di un lago. Sono poi aggrediti da un'orda di scimmie a cavallo, armate e corazzate come amazzoni. Catturato e condotto al quartier generale, il capitano Charlton Heston viene curato da un primate-scienziato (scimmia sapiens, potremmo definirlo) secondo il quale il prigioniero confermerebbe una bizzarra teoria anti-darwiniana: le scimmie discendono dall’uomo! Più convenzionale, almeno in questo caso, lo Stanley Kubrick di «2001. Odissea nello spazio», che nel prologo («L’alba dell’uomo») aderisce all’evoluzionismo raccontandoci che nell'Africa di quattro milioni di anni fa, un branco di queruli e irrequieti ominidi sopravvive a fatica in un ambiente arido e ostile, contendendosi a suon di botte il diritto di abbeverarsi a una stessa fonte. Finché un giorno compare un misterioso monolito che con la sua energia divina imprime loro un primo passo verso l’evoluzione.
Ma torniamo al film di Schaffner. L’ufficiale prigioniero fa di tutto per fornire alla psicologa (ovviamente un’altra scimmia, benché aggraziata) la prova che anche lui è un animale intelligente. Alla fine, tra i reperti archeologici che testimoniano l'esistenza di una civiltà precedente, agli occhi dell’incredulo e sgomento capitano che vaga sul litorale appaiono i resti della Statua della Libertà insabbiata! E allora altro che pianeta sconosciuto. Il pianeta è la Terra! L’astronave infatti, nel suo precipitare, ha superato le barriere spazio-temporali e così, anziché i pochi giorni che era lecito supporre, sono in realtà trascorsi interi millenni. La Terra, regredita e sconquassata da chissà quali cataclismi, è finita sotto il dominio del popolo dei primati, preoccupati di annientare gli ultimi umani sopravvissuti, che si sono abbrutiti sino a perdere l'uso della parola. Appreso il tragico destino dei suoi simili, il capitano si accascia, piange e maledice l’umana ottusità che ha distrutto il pianeta. Il film si presta a considerazioni moraleggianti sulle conseguenze provocate da chi non sa gestire il progresso senza ferire la natura della quale lui stesso è parte. Quella del Pianeta delle Scimmie è una vicenda amara che ribadisce l’indole violenta e autodistruttiva degli uomini. La sequenza conclusiva - giustamente celebre - della Statua della Libertà è di angoscioso e angosciante impatto visivo.
Profetico Terry Gilliam, regista di «L’esercito delle 12 scimmie», denominazione di un sedicente gruppo ecologista proprietario di un virus letale che servirebbe per liberare Terra da quel cancro chiamato uomo.
Ma perché non si pensi che la scimmia sia sempre e solo un simbolo del male, sorridiamo un po’ e torniamo bambini ripensando a Cita (o Cheetah), il buffo scimpanzè che aiuta Tarzan.
Ma il coniglio è davvero così timido
In «Donnie Darko» di Richard Kelly, film di culto soprattutto per le nuove generazioni, il giovane schizofrenico Donnie è in cura da una psicanalista alla quale confida di avere un amico. Nulla di strano se non fosse che l’amico è immaginario: si tratta di un coniglio gigante che gli ha salvato la vita facendosi promettere in cambio di compiere cose riprovevoli e rischiose (dunque una versione riveduta e corretta del faustiano patto col diavolo). Fra l'altro il coniglio, oltre che gigante, è anche veggente, avendo rivelato che incombe la fine del mondo. Donnie Darko è un film che brilla di una luce sinistra. Qui non si parla delle solite tematiche adolescenziali, ma di qualcosa di più profondo: l’afflizione, l’incubo, il peso dell’esistenza, la morte. Il regista usa toni inquietanti per interrogarsi sull'effetto prorompente che esercita su ogni individuo la consapevolezza di dover prima o poi lasciare questo mondo. La morte ci accompagna nelle nostre azioni e sensazioni, stimola le nostre emozioni, agisce su affetti e decisioni, sulla nostra inclinazione a lodare o a disprezzare, sulla diffusa vocazione alla ribellione, sulla voglia di anarchia. E il coniglio è emblema di deterioramento psicologico che produce disagio.
Ma 'non tutti i conigli vengono per nuocere'. Ad esempio il coniglio «Harvey» è il grande amico di James Stewart in un vecchio bianco e nero di Henry Koster. Grande amico, sì. Peccato però che lo veda solo lui! Il fenomeno indispone e disorienta una comunità che decreta per l’eccentrico personaggio il ricovero in manicomio (ma l’happy end è dietro l’angolo). E come non menzionare il cult «Chi ha incastrato Roger Rabbit»?, felice intuizione della premiata ditta Spielberg &Z emeckis dove si confrontano e confliggono realtà e fantasia. Il coniglio Roger Rabbit (copia di Bugs Bunny) ha come moglie Jessica, conturbante entreneuse di un club gestito da cartoons e frequentato da umani ammaliati dal suo canto e dal suo fisico curvy. Leggendaria una sua risposta: “Io non sono cattiva, è che mi disegnano così”.
«PASSATO PER UN CAMINO...»
I mostri dunque. A volte ritornano. È proprio vero. Sono destinati a riciclarsi in corsi e ricorsi. Lupi mannari, vampiri, iene, pantere, pesci piranha, serpenti, animali fantastici come draghi, dinosauri, liocorni e varie creature dei boschi: i mostri non muoiono mai. E si annidano ovunque, anche nel cuore degli uomini. Un’esperienza di dolore assoluto ci viene raccontata da Steven Spielberg, regista di origine ebraica, in un film sull’orrore estremo, «Schindler’s List», realizzato per essere il più eloquente documento di fiction sull’olocausto.
Ma a volte anche una canzone ci illumina. Ad esempio “Auschwitz” di Francesco Guccini. Il cantautore bolognese descrive in stile sessantottesco la tragedia di un bambino bruciato in un campo di sterminio. Disperdendo nel vento e nel silenzio vite innocenti, gli aguzzini di Auschwitz hanno spento dignità, rispetto, clemenza, pietà. Il gelo dell’inverno fa il paio col gelo che alberga nel cuore di chi ha eseguito ordini criminali. E di chi li esegue ancora oggi. Guccini lancia alla fine un grido disperato contro la bestialità della guerra parlandoci della “belva umana” mai sazia di sangue. La canzone è amara. Non meno amaro l’interrogativo che ci viene spontaneo: e se l’animale più feroce, con la sua razionale predisposizione al genocidio, fosse lui, l’uomo?