I numeri
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I numeri sono buonissimi
un racconto di Valeria Viganò
Valeria Viganò
Conto per non pensare. Conto alla rovescia, da 1000 a 0, oppure saltando i numeri pari, oppure quelli dispari.
Mi capita di farlo quando ho troppi pensieri e ciascuno di loro vuole prevaricare l’altro, oppure quando voglio tenere a bada l’ansia, per esempio dal dentista in attesa del mio turno.
Senza che necessariamente assuma le sfumature di un disturbo ossessivo compulsivo, mi accorgo e compiaccio di quanto i numeri, con il loro rigore e disciplina, mi vengano in aiuto nei momenti di 'disordine'.
Lei ogni mattina alle sette si svegliava. Alle otto esaminava la casella della posta. Alle otto e mezza era in stazione in attesa di un vano ritorno.
«Aspettava una persona. Fra tutte le volte che si era recata alla stazione ve ne era stata qualcuna in cui aveva creduto di riconoscerlo».
E allora le saliva la rabbia, l’impotenza, il disgusto, e solo «l’ossessione per lui e il suo ritorno la salvava».
I numeri sono buonissimi è un racconto scritto lo scorso anno da Valeria Viganò per Tetra Edizioni.
Valeria Viganò è nata a Milano nel 1955 e vive a Roma. Tra le sue opere di narrativa Il tennis nel bosco (1989), Prove di vite separate (1992), L'ora preferita della sera (1995), Il piroscafo olandese (1999). Insegna scrittura in numerosi istituti e collabora all'«Unità» e alla «Repubblica».
In questo breve e poetico racconto di sole 61 pagine, ritrae sostanzialmente la solitudine e il mondo parallelo e silenzioso che questa impone. Lei è stata lasciata dall’uomo che ama. Lei non se ne capacita. Lo aspetta e lo cerca ogni giorno, alla stazione dei treni, instancabilmente e ossessivamente. L’attesa e la speranza condizionano tutta la sua esistenza e rendono vuota e inutile qualsiasi altra cosa che non sia l’attesa stessa. Lei lascia il lavoro, che peraltro trova sempre più insopportabile. Per un caso fortuito le viene data la possibilità di scrivere la sua storia con una minuscola casa editrice ma l’avventura editoriale, dopo un buon inizio segnato dalla vincita di un premio letterario, si rivela in seguito improduttiva e negativa. Le parole la tradiscono e la deludono, di continuo. Si rifugia nei numeri. Li legge ovunque e li annota nel suo quaderno, li legge e rilegge carpendone ogni volta un segreto. Il suo numero preferito è il '10', perché raramente lo trova da solo ed è sempre accostato a un compagno che lo disintegra. E scompare. Il '10' è inoltre è il numero della casa in cui abitava nella sua vita precedente, in un banale condominio, con il caos della metropolitana in costruzione proprio accanto al portone. «Lei, con il suo disagio, si sentiva un cantiere sempre».
«L’amore fa davvero ammattire» è il mantra di un’attesa infinita che si dilata e impossessa delle tre fasi del racconto stesso: dopo un’Introduzione, che come un’istantanea ci suggerisce uno spazio, La vita prima, fatta di ritmi scanditi e oppressivi di un lavoro impiegatizio in azienda, un Intermezzo che segna una linea di demarcazione tra un prima e un dopo, e La vita dopo. Tre momenti distinti ma logicamente consequenziali che troveranno il loro epilogo nel breve ma intensissimo Finale.
«Gli altri si muovono verso destinazioni che si ignorano, ognuno ha un compito, un dovere: il figlio da riprendere in piscina, la cena con gli amici, una riunione di lavoro, una celebrazione o una ricorrenza e il regalo da comprare, la messa del vespro, un incontro furtivo da giovani fidanzati, gruppi di ragazzi vocianti e indifferenti che si spintonano e sghignazzano.
Vanno e vengono sotto la finestra, parlano al cellulare, aspettano che il verde scatti nell’oblò del semaforo. Un’immensa carica di frustrazioni e gioia, preoccupazioni e soddisfazioni, un coro di combinazioni che pullulano intorno, le pulsazioni diverse che battono al ritmo di un tempo sconosciuto e ignoto, altro da sé che si vuole sempre piegare e da cui si viene sempre piegati. Un’eterna illusione, finché si è vivi».
Un’eterna illusione, infatti, la vita. E là dove le parole falliscono perché incapaci di esprimere tutta la disperazione che lei prova, ecco che ci sono i numeri. Non solo cifre ma simboli che hanno un proprio suono anche quando non vengono pronunciati, che dicono e che rivelano. A differenza delle parole «menzognere, con doppi fini, subdole di onestà», i numeri non mentono e non ingannano.
«Io ho il compito di annotare numeri tutto il giorno. Ho cominciato con i cartelloni dei treni, il numero dei convogli, l’orario di partenza e arrivo quando andavo sempre là in stazione e loro duravano nemmeno un’ora. E loro hanno cominciato a parlarmi».
La solitudine di chi non parla, oppure parla da solo. O, in estremo, ascolta e decifra un linguaggio misterioso che sussurra il segreto, l’unico modo per sopravvivere in questo mondo di vivi sempre più rarefatti e invisibili. Inutili, quasi. Ciascuno preso dal proprio individualismo sfrenato e troppo occupato per volgere lo sguardo a chi, più sensibile, sta soffrendo in silenzio.
Dimenticavo: emblematica la dedica:
«A tutti i cani del mondo».