Il paesaggio
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Praterie e periferie
Dagli orizzonti naturali del lontano ovest al degrado suburbano del vecchio continente
di Ivan Mambretti - SECONDA PARTE
Accattone, di Pier Paolo Pasolini (foto: centroagalma.it)
Dall'epopea del Far West al deterioramento suburbano delle città europee
PARTE II - Bassifondi e banlieue: la grande bruttezza
A dare vita al cinema di periferia (anche se in verità il precursore fu Vittorio De Sica, cantore dei baraccati in Miracolo a Milano, 1951) ci ha pensato il regista-intellettuale-polemista-poeta-profeta Pier Paolo Pasolini. Già oltre mezzo secolo fa PPP aveva intuito quali direzioni culturali ed economiche avrebbe preso la società italiana, dedicandole una lucida e cruda analisi del sottoproletariato urbano con al centro la figura del borgataro, in bilico fra manifesta ingenuità e sofferenza latente. In Accattone (1961) Franco Citti muore sussurrando “mo sto bbene!”, in Mamma Roma (1962) l’intensa Anna Magnani è una prostituta col figlio da redimere che si aggira fra casermoni popolari e antichi ruderi, mentre Uccellacci e uccellini (1966) è una favola di tono filosofico basata sui dialoghi da strada fra Totò, Ninetto Davoli e un corvo. Titoli nei quali è evidente la partecipazione dell’autore alle tribolazioni degli ultimi pur senza tralasciare di coglierne intelligenza e vitalità. In Caro diario (1993) Nanni Moretti rende omaggio a Pasolini con l’ironica scorribanda in casco e Lambretta per le vie di una Roma anti-convenzionale. La corsa si conclude sul litorale di Ostia nel punto in cui il maestro e collega di Nanni fu assassinato.
Tanta acqua è passata sotto i ponti e le periferie sono cambiate. Ma il degrado resta. Anzi, è peggiorato. Mentre i poveri descritti da Pasolini erano dotati di una mistica purezza ereditata dalla secolare civiltà contadina, le periferie sono oggi popolate da una gioventù allo sbando, amorale, viziata, drogata, rabbiosa. E le fatiscenti strutture che li accolgono sono specchio e riflesso di quelle anime lacerate. Regista erede di Pasolini - forse il principale - è Claudio Caligari, prematuramente scomparso e per questo poco conosciuto, che ha lasciato un trittico interessante sull’argomento: Amore tossico (1983), L’odore della notte (1998), Non essere cattivo (2015). Caligari ha scelto come luoghi d’elezione Ostia e dintorni, ambientandovi i suoi personaggi malavitosi e violenti che vivacchiano, spacciano e si lasciano ricattare dai clan mafiosi (l’epoca di Pasolini, a confronto, aveva un che di romantico). Storie che hanno come scenario decrepiti formicai di cemento, testimonianza di un’edilizia popolare sciatta e indegna di una società civile. Una sorta di grande bruttezza dovuta all’incuria di politici e amministratori o forse solo alla loro incapacità di fronteggiare emergenze chiamate lottizzazione e speculazione (inevitabile a questo punto un tuffo nel passato per rievocare Le mani sulla città, del 1963, girato da Francesco Rosi in pieno boom e non a caso ambientato a Napoli).
Le periferie fanno da scenario a film analogamente scioccanti come Forza cani (2002) di Marina Spada e La guerra di Mario (2005) di Antonio Capuano. Curiosi anche il documentario Sacro GRA (2013) di Gianfranco Rosi, che con sguardo poetico intreccia scampoli di quotidianità lungo il raccordo anulare di Roma, e il “supereroe” Claudio Santamaria in Lo chiamavano Jeeg Robot (2015) dell’esordiente Gabriele Mainetti, che irride i prodotti della Marvel e strizza l’occhio alla vecchia commedia all’italiana. Esordiente è anche Roberto De Paolis, che in Cuori puri (2017) racconta una love story a Tor Sapienza tra il guardiano di un parcheggio vicino a un campo rom e una ragazza molto devota.
Una vera chicca ci viene dal grande Matteo Garrone, che dopo aver reso celebri le Vele di Scampia in Gomorra (2008), gira sullo spoglio litorale ostiense il surreale Dogman (2018), liberamente ispirato a un vecchio fatto di cronaca nera: il delitto del “canaro”. In Garrone la violenza è imperante quanto è impattante la potenza delle sue pur scarne inquadrature. Nessun regista italiano di oggi possiede come lui il senso del cinema.
A prova di quanto i ritratti cinematografici della periferia italica convincano in Europa, segnaliamo l’Orso d’Argento di Berlino assegnato ai fratelli D’Innocenzo con Favolacce, dove alcune famiglie che abitano in villette a schiera della provincia romana vivono un disagio che inutilmente cercano di neutralizzare. Sembra a tratti di trovare nel film il senso delle operette morali di Alice Rohrwacher (soprattutto Lazzaro felice, 2018). In Favolacce conta lo sguardo dei bambini sul mondo degli adulti, un mondo crudele che li costringe a subire soprusi e incomprensioni. I loro genitori si sono malamente imborghesiti restando incapaci di trasmettere affetto. I D’Innocenzo, che per le produzioni low cost e la visione pessimistica della vita potremmo definire “i Dardenne de’ noantri”, hanno rivelato una forte motivazione già nel film d’esordio, La terra dell’abbastanza (2018), in cui due giovani ‘coatti’, investendo con la loro auto un pentito di mafia, si ritrovano costretti a entrare nel mondo della mala per avere protezione.
Sul tema delle periferie vanno registrate analogie fra varie cinematografie europee. A parte le periferie belghe descritte dai già citati fratelli Dardenne, ci sono le banlieue francesi, realtà già di per sé difficili, complicate da una radicata convivenza con gli stranieri. La criminalità comanda e la polizia soccombe. In un mix di film d’azione e documentario, il cinema d’oltralpe denuncia la crisi sociale sottolineando come esista in fondo anche un’umanità vogliosa di riscatto. L’odio (1995) di Mathieu Kassovitz si può considerare il capostipite del filone. Girato in bianco e nero e sostenuto dalla vigorosa performance di Vincent Cassel, è un film sulla brutalità della polizia e l’insofferenza dei giovani nei confronti del potere costituito. In La schivata (2003) il regista franco-tunisino Abdel Kechiche racconta l’amore povero tra una giovane parigina e l’introverso compagno maghrebino, fatalmente imprigionati nel ceto sociale di provenienza. Il regista Laurent Cantet pone invece l’accento sulle difficoltà di scolarizzazione. Senza enfasi né retorica ci dimostra quanto anche nel suo Paese la scuola sia da ricostruire dalle fondamenta in La classe (2008), scomodo diario di un anno scolastico vissuto da un insegnante fra le mura di un’aula (“Entre les Murs” è appunto il titolo originale). La realtà classe si identifica chiaramente con la realtà sociale.
Il regista inglese Ken Loach, figlio di operai, educato al free cinema degli anni Sessanta, dedica l’intera sua opera a raccontare l’emarginazione e l’esasperazione. Nel suo ultimo film, Sorry we missed you, condanna senza sconti le forme di neo-schiavismo cui sono sottoposti i runners e relative famiglie. Poiché il cuore di Loach batte scopertamente a sinistra, viene spesso additato come un comiziante quasi noioso. Ebbene - replica il critico Giancarlo Zappoli -, se i film di Loach sono comizi lo era pure il capolavoro di Hugo "I miserabili", che guarda caso, proprio quest’anno, il regista Ladj Ly ha rivisitato per lo schermo e attualizzato conservando il titolo originale, Les Misérables, dove la fanno da protagonisti ragazzini di origine islamica.
Secondo l’antropologo francese Marc Augè le periferie sono i luoghi che convogliano i problemi rendendoli più tangibili e materiali: disoccupazione, microcriminalità, incultura, solitudine, tensioni etnico-religiose, lontananza dalle istituzioni. Ma proprio là dove la vita è più difficile, prospera una insospettata energia creativa del tutto assente nella piccola borghesia cittadina, benestante ma opaca e apatica.