Il presente
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Il cinema italiano, oggi
Il panorama non è entusiasmante.
La Giovinezza - Youth, di Paolo Sorrentino
C’è speranza per una rinascita? Sì, ma con le giuste risorse e progetti mirati. Se ci venisse chiesto un parere sulle odierne condizioni del cinema italiano risponderemmo,
d’istinto, a malincuore e forse avventatamente, che il nostro cinema è spoglio, disadorno, sciatto, spesso povero persino dello specifico filmico. Un cinema che annaspa alla ricerca di idee, che viene confezionato in casa o per le strade con pochi mezzi, magari con la trovata del finale aperto che poco convince il pubblico di bocca buona. E non parliamo della presa diretta: ci viene contrabbandata come una risorsa da cinema-verità, ma sembra piuttosto un ripiego per risparmiare e che ha il solo effetto di distorcere le voci degli attori e far perdere un sacco di battute.
Gli attori, bravi o no, appaiono troppo spesso sfiduciati, apatici, demotivati. Tengono a volte un atteggiamento ambiguo, nel senso che non è chiaro se l’ambiguità sia prevista dal copione o stia nella consapevolezza di mettere a disposizione impegno e professionalità senza sostegno morale nè materiale. Senza che venga loro indicato un progetto culturale che li stimoli e li valorizzi, che infonda coraggio e speranza.
I volti più noti del cinema italiano di oggi? Citiamo a caso Valerio Mastandrea, Pierfrancesco Favino, Valeria Golino, Margherita Buy, Riccardo Scamarcio, Jasmine Trinca, Stefano Accorsi, Luigi Lo Cascio, Micaela Ramazzotti, Claudio Santamaria, Alba Rohrwacher. Tutti attori che piacciono, intendiamoci. Ma che non hanno il carisma dei Mastroianni, Tognazzi, Manfredi, Gassman, Sordi, Loren ecc., forse anche perché la memoria collettiva di questi ultimi, ben sedimentata, li ha trasformati in leggenda. Ovvio che le nuove generazioni preferiscano i beniamini del proprio tempo. Ma chissà se anch’esse un giorno potranno vantare un’Anna Magnani o un Vittorio De Sica.
Da decenni non si vedono più le code chilometriche al botteghino, che sono ormai nel ricordo di chi ha i capelli bianchi. Non è però tutta colpa del cinema. Si pensi infatti alle mille diversificazioni del tempo libero, alle forme di svago affermatesi e cresciute nel tempo - specie dal dopoguerra per giungere all’era Internet - che hanno causato al cinema la perdita del suo appeal più autentico e l’allontanamento delle masse. Cineasti ce ne sono ancora, intendiamoci, e anche di validi. Non si trovano invece molti produttori disposti a rischiare e la conseguenza è che i registi sono costretti ad arrangiarsi alla meno peggio. Quelli italiani, ovviamente. Per gli americani, si sa, è tutt’altra cosa. Loro sono danarosi e megalomani, se la cavano sempre grazie a una produzione di film tecnicamente e tecnologicamente perfetti, anche se per lo più adatti a un pubblico di ragazzini frequentatori delle multisala, che offrono sì una programmazione varia, ma solo nei titoli. Generi e clichè sono sempre gli stessi: fantascienza, fantasy, animazione, disaster-movie, stucchevoli americanate e becere commediole italiane chiamate cinepanettoni perché la loro uscita avviene intorno a Natale (ma ormai anche in altre stagioni). La multisala è una struttura a carattere commerciale collegata a catene di supermarket. Sembra quasi che la visione dei film sia lecita solo se ci si fionda muniti di mega-contenitori di popcorn, buste noiosamente fruscianti di patatine e caramelle, lattine di Coca Coca. La parola d’ordine è trovarsi per fare merenda, poi, se capita, dare un’occhiata al film. E forse è giusto: sono film che non meritano più di un’occhiata! A fronte di una numerosa presenza di spettatori nei weekend, nei giorni feriali si registra spesso il vuoto spinto (chi scrive ha visto allo Starplex di Sondrio il musical La la land in totale solitudine).
E la qualità? Quella bisogna andarla a cercare nelle sale d’essai o in vecchi cinema dove le biblioteche o altre associazioni organizzano cicli di cineforum. Vale la pena di precisare che i film selezionati per le sale d’essai non sono astruse pellicole per intellettuali masochisti, ma semplici film che, al contrario del cinema commerciale, raccontano storie normali di uomini e donne normali, affrontano i problemi della contemporaneità, inducono a un minimo di riflessione, sperimentano qualcosa di nuovo o di diverso.
Punte di diamante e voci altisonanti dell’attuale panorama italiano sono i talentuosi Matteo Garrone e Paolo Sorrentino. Il loro è un cinema capace di recuperare perdute ribalte internazionali, sono autori che usano finalmente la macchina da presa col tocco dei maestri, all’inseguimento dell’originalità. Se il cinema fosse ancora in auge come negli anni Cinquanta-Sessanta, Garrone e Sorrentino sarebbero la riedizione riveduta e corretta di Fellini e Visconti. Ma la minor attenzione generale verso il fenomeno cinematografico e il radicale mutamento dei costumi e dei riferimenti socio-culturali non consentono accostamenti fra le due coppie d’autori. Esattamente come fra i due registi del passato (Fellini estrosissimo, Visconti impegnato sul piano storico-politico), anche i loro eredi si differenziano: Garrone si richiama a un realismo spontaneo e immaginifico (Gomorra, Il racconto dei racconti), Sorrentino è più patinato e ammiccante (La grande bellezza, Youth). Li accomuna comunque il carattere visionario. Sorrentino ha un attore feticcio: è Toni Servillo, che sa essere camaleontico come in Il divo o imperturbabile come in Le conseguenze dell’amore. Sorrentino ama l’estetica del potere (Il divo è Andreotti, mentre siamo in attesa di vedere la sua ultima fatica, Loro, sul caso Berlusconi). Garrone invece, che punta molto sulla coralità, preferisce l’estetica del brutto, come nei suoi film sopra citati cui ne aggiungiamo altri due significativi: L’imbalsamatore, storia di un personaggio misterioso sullo sfondo di una squallida Napoli periferica, e Primo amore, che mette a nudo la piaga dell’anoressia. Entrambi gli autori ci parlano di un’Italia malata, ma evitano le prediche, non fanno la morale, si limitano a spiazzare lo spettatore con immagini ora meravigliose ora scioccanti, senza la pretesa di competere con le produzioni d’oltreoceano e soprattutto sempre in contrasto coi canoni e i linguaggi televisivi, cui molti loro colleghi attingono per assicurarsi facili successi.
Abbiamo anche un outsider. Si chiama Nanni Moretti, grosso personaggio del cinema, attore e regista, una sorta di lupo solitario con una carriera ormai lunga e consolidata, ma sempre in sintonia col mondo che lo circonda: Roma e la provincia. Anche se risulta poco simpatico e spudoratamente autoreferenziale, l’uscita di ogni suo film è sempre un evento e molte sue sentenze innaffiate di sarcasmo hanno fatto epoca. Per poterlo apprezzare bisogna averlo seguito sin dagli esordi, quando in Io sono un autarchico e Ecce bombo sottolineava malinconico vizi, illusioni e fallimenti del mito chiamato Sessantotto.
Il nostro cinema d’autore cerca di inquadrare l’uomo afflitto dai mille problemi della modernità. Un cinema sempre in bilico fra pessimismo, ironia e rabbia che guarda a tutti gli spazi sociali e relativi drammi: la famiglia, il lavoro, la malattia, la disoccupazione, le storture della politica, la giustizia ingiusta, la criminalità organizzata, l’omosessualità, il precariato e non ultimo l’inarginabile processo migratorio che provoca disagi e alimenta intolleranze. Un cinema che trasmette anche il senso di una sconcertante incomunicabilità. Una incomunicabilità di ordine pratico ed economico che certamente non ha nulla a che vedere con quella esistenziale alla Antonioni. A fronte dei suoi difetti (o forse proprio per questi), il nostro cinema risulta comunque un documento attendibile della nostra storia attuale, una narrazione di ciò che siamo e delle miserie che ci circondano, una corposa offerta di materiale di studio per gli storici del futuro. Potremmo battezzarlo cinema neo-neo-realista, se non temessimo di profanare la memoria di capolavori indiscussi come Roma città aperta e Ladri di biciclette. Non è, la nostra, un’esagerazione: basta pensare che ancora oggi il cinema italiano, quello che va dal neorealismo del dopoguerra fino ai primi anni Sessanta, è riconosciuto come faro e scuola nientemeno che dal cinema americano serio (in primis Scorsese, Woody Allen, Tarantino).
La grande bellezza di Paolo Sorrentino
Prendiamo ad esempio La grande bellezza, il film Oscar di Paolo Sorrentino che strizza l’occhio a La dolce vita (entrambi cantano Roma, ma ciascuno col marchio della propria epoca). Mentre il film di Sorrentino è stato un caso cinematografico consumatosi come tale, l’opera di Fellini non ha avuto solo un successo planetario, ma ha segnato la storia e la cultura italiana degli anni del boom economico, e ancora se ne parla. Oggi si fanno film sulla disperazione dei popoli in fuga dai loro paesi d’origine, ma nessuno ha la forza espressiva di Rocco e i suoi fratelli, dove Visconti usò i toni della tragedia greca per descrivere l’odissea di una famiglia di migranti italiani (i terroni, come si diceva), cioè la mai risolta ‘questione meridionale’ che negli anni Sessanta rappresentò il rovescio della medaglia del boom.
Eppure, fra una geremiade e l’altra, i cineasti di casa nostra sono ancora in grado di aggiudicarsi premi e riconoscimenti all’estero. Solo negli ultimi anni abbiamo portato a casa due Orsi d’Oro alla Berlinale (Cesare deve morire dei fratelli Taviani e Fuocoammare di Rosi, entrambi docu-film), una Palma cannense come miglior attore a Elio Germano per La nostra vita, Grand Prix a Matteo Garrone per Reality e a Alice Rohrwacher per Le meraviglie, e persino Golden Globe più Oscar a Sorrentino col già citato La grande bellezza.
Le meraviglie di Alice Rohrwacher
A volte si ha l’impressione che ciò che manca al cinema italiano non siano tanto i soldi quanto un po’ di serenità, di autostima, di fiducia in se stesso e nelle proprie risorse intellettive. Mancano lo stimolo a guardare avanti e la pazienza di organizzarsi per fare di meglio e di più.
Certo, la stagione del divismo da noi è finita. Se un giovane vuole intraprendere la carriera nel mondo dello spettacolo, deve sapere che sarà chiamato ad affrontare le incognite di un lavoro peggiore di altri perché qui, per entrare, ci vogliono raccomandazioni, fortuna e la copertura economica della famiglia: sono ambienti altamente selettivi che tendono a favorire i figli o le nipoti di...
Ci sono registi che alla loro opera prima hanno un positivo impatto su pubblico e critica, ma che poi si perdono, brancolano o vivacchiano. Ferzan Ozpetek, che con Le fate ignoranti affrontava tematiche gay alla maniera di Almodovar, sembrava avviato a un radioso avvenire, ma s’è arenato nella mediocrità del filone sentimentale (vedi Allacciate le cinture). Per Gabriele Muccino L’ultimo bacio è stata una festa appena cominciata e già finita. Silvio Soldini è arrivato al top con l’ormai remoto Pane e tulipani. Molti si orientano allora verso la serialità televisiva, che oggi va alla grande. Romanzo criminale, Gomorra, Suburra. È sceso in campo lo stesso Sorrentino con The Young Pope. Sono lavori che reggono persino il confronto con le serie americane. E questo è un segno positivo. Vuol dire che in fondo non mancano le idee, nemmeno quelle per far tornare in auge il cinema di genere, che un tempo dava parecchio ossigeno al box office.
Pane e Tulipani di Silvio Soldini
Alcuni tentativi di raccontare l’Italia contemporanea in chiave comica sono andati a buon fine, come gli ormai datati Aldo, Giovanni e Giacomo (ricordate Tre uomini e una gamba?), come oggi lo showman salentino Checco Zalone (avete visto gli incassi di Quo vado?). O come il regista Paolo Genovese che col suo Perfetti sconosciuti ha avuto per primo l’idea di ironizzare su uso e abuso dei cellulari. Inebriato dal successo, Genovese si è poi avventurato nei perigliosi meandri dell’alta letteratura col faustiano The Place, film ambizioso ma irrisolto. Gabriele Mainetti parte dal reale per vagheggiare nostalgiche evasioni ‘manga’ come in Lo chiamavano Jeeg Robot, preceduto da Gabriele Salvatores con l’assai meno convincente Il ragazzo invisibile, ‘studio di fattibilità’ per una fantascienza all’italiana. Giuseppe Tornatore, con La corrispondenza, parla dell’inesorabile influenza dell’informatica nella nostra vita anche privata. Daniele Vicari porta avanti la sua analisi delle contraddizioni del presente e lo fa con un film politicamente scorretto, Diaz, sulle atrocità compiute dalla polizia durante il G8. Matteo Rovere descrive una singolare crisi familiare in Veloce come il vento, ambientato nel sottobosco delle corse automobilistiche. 7 minuti ci fa conoscere il regista Michele Placido in versione sindacale: narra infatti la storia di 11 operaie di una fabbrica in liquidazione che si interrogano su quanto siano disposte a cedere pur di mantenere il lavoro, ma soprattutto hanno paura di dover perdere la loro dignità. In Gli ultimi saranno ultimi di Massimiliano Bruno l’impiegata disperata Paola Cortellesi viene sospesa dalla ditta perché incinta. Con Gli equilibristi, Ivano De Matteo denuncia la difficoltà di arrivare alla fine del mese. Lo spassoso Smetto quando voglio di Sydney Sibilia descrive le peripezie di alcuni brillanti ricercatori universitari costretti al precariato nel tempo della crisi economica. Scialla! di Francesco Bruni indaga sulla convivenza forzata di un professore sognatore col solito adolescente ribelle. Prendendo spunto dalla vicenda Englaro, il vecchio leone Marco Bellocchio ci scuote toccando il delicato argomento dell’eutanasia in Bella addormentata.
Gli ultimi saranno ultimi di Massimiliano Bruno
Attento lettore della realtà attuale è Paolo Virzì, del quale citiamo Tutta la vita davanti sulle deludenti aspettative delle ragazze nei call-center, Il capitale umano sul diabolico connubio fra cinismo e arrivismo, e La pazza gioia, storia di donne in fuga sulla falsariga del cult-movie Thelma e Louise. Discorso a parte merita Claudio Caligari, morto prematuramente senza aver colto il profumo di un successo annunciato. Caligari ha fatto in tempo a lasciare una trilogia: Amore tossico, L’odore della notte e Non essere cattivo. Tre opere scarne, rigorose e provocatorie ma di notevole rilevanza sul piano della denuncia del malessere sociale che affligge i nostri giovani
A chi parla oggi di rinascita del cinema italiano si può rispondere che non c’è rinascita se non si riesce a trascinare in sala un pubblico motivato, numeroso e anagraficamente trasversale. Abbiamo cercato di segnalare qualche caso meritevole. Ne aggiungiamo altri: Anime nere, cupo dramma che si sviluppa negli ambienti della ‘ndrangheta, Ammore e malavita, musical sulla camorra in salsa tarantiniana, Piuma e Cuori puri su come sia difficile amarsi fra i giovani d’oggi, L’esodo che mette addirittura il dito nella piaga della legge Fornero, Un posto sicuro che documenta gli effetti nefasti dell’amianto dell’Eternit. Sebastiano Riso è regista del dolente Una famiglia, sulla discussa moda dell’utero in affitto e la violenza tra le mura domestiche. Ci sia infine consentita una punta di orgoglio valligiano: il sondriese Vittorio Moroni gira un film sull’integrazione in Se chiudo gli occhi non sono più qui, dove un orfanello di origine filippina trasforma in un personalissimo ‘buen retiro’ la carcassa di un bus abbandonato.
Se chiudo gli occhi non sono più qui di Vittorio Moroni
Sono titoli dal successo tiepido o fugace ma meritevoli di attenzione perché sono la prova provata che il cinema italiano esiste, è vivo e potrebbe persino aspirare alla ‘rinascita’. I film da noi indicati non sono frutto di improvvisazione e neppure di circostanze favorevoli, men che meno della smania di un guadagno tutt’altro che facile. Sono piuttosto il risultato della tenacia e della forza di chi ci crede. E chi ci crede, andrebbe sostenuto con quella stessa forza.