L'amore

Trittico d'amore

di Luca Guadagnino

di Ivan Mambretti – PRIMA PARTE

guadagnino luca

Luca Guadagnino (foto: interviewmagazine.com)

Luca Guadagnino, palermitano del 1971, è il più significativo regista del terzo millennio che non senza difficoltà si sforza di conquistare il pubblico e la critica con una produzione cinematografica così personale da consentirgli di varcare i patrii confini.

Il filo conduttore della sua estetizzante narrativa è la forza dell’amore declinata in modo non convenzionale, come si evince dai tre titoli più importanti della sua non ancora lunga carriera: Io sono l’amore (2009), Chiamami col tuo nome (2017) e Bones and All (2022). Solo il primo dei tre riesce a mantenersi nel solco di una cinematografia tradizionale.

 

Segreti di famiglia in un interno

In Io sono l’amore, unico film tutto italiano, Guadagnino punta lo sguardo sulle grandi saghe familiari che furono care al maestro Luchino Visconti. In effetti, come non definire questo film una 'caduta degli dei' all’italiana? Proviamo a spiegarne il perchè. Qui gli 'dei' non sono i nazisti sull’orlo della disfatta dopo i progetti imperialistici (come nel capolavoro viscontiano), ma i membri del piccolo e chiuso mondo di una famiglia dell’odierna aristocrazia imprenditoriale milanese. I pregi e il prestigio guadagnati nel tempo si sono dileguati di fronte a un inarrestabile fallimento economico ma soprattutto a causa di una crisi dei sentimenti sempre più manifesta. Un microcosmo crollato sotto le macerie morali di una masochistica ostinazione a non voler vedere i cambiamenti e la salvezza è ora possibile solo attraverso il recupero di affetti perduti. In parole povere è mancato in famiglia il coraggio di affrontare difficoltà private e criticità venute da fuori. E quando si fa finta di niente, ci spiega Guadagnino, non ci si deve poi lamentare se niente è più come sembra.

Fra gli ingredienti di contorno della trama spiccano le cene che riuniscono tutti intorno alla tavola luccicante di argenteria, coi camerieri taciturni e solo apparentemente distratti, con l’erede del patrimonio seduto a capotavola e soprattutto l’ordine del giorno, che è piuttosto l’interrogativo d’obbligo del momento: quale sarà il futuro della famiglia, se la famiglia è costretta a navigare fra le rotte tempestose dell’ipocrisia, dell’avidità, delle incomprensioni, di latenti rancori trattenuti e stento e sempre sul punto di esplodere?Il freddo dell’inverno è metafora della mancanza di passione. La casa dovrebbe essere un rifugio, rappresentare la sicurezza, regalare un senso di protezione, il luogo in cui entrare in contatto con ciò che si è stati e che si è diventati, secondo la sottile linea di confine fra le insidie sociali e le illusioni di uno status blindato nei comfort. Specchi e stucchi, fiori e decorazioni, stanze e saloni, corridoi e giardini inariditi. Qui nonni, figli e nipoti celebrano il rito dell’avvicendamento alla guida dell'azienda e ipotizzano strategie per consolidarla. Le vecchie mura reggono finestre e vetrate che sarebbero utili a prendere atto del nuovo che avanza, del quale invece, in balìa di una fragile supponenza intellettuale, nessuno coglie i segnali. Troppa la smania di regolare i conti senza guardarsi dentro, che sarebbe la cosa giusta da fare. Gli attori sono calati nei loro controversi personaggi, ma nonostante i rapporti complicati tradiscono indifferenza più che tensione, preferiscono alimentare livori anziché cercare di chiarirsi una volta per tutte.

 

 

Realizzato in un intimo e al tempo stesso sontuoso interno, è evidente nel film la strizzatina al genere melò. Guadagnino evita comunque il linguaggio minimalista delle telenovelas per dare spazio al vero cinema, che ben conosce e ama, e rende funzionali al racconto le atmosfere claustrofobiche.

Emerge nel cast, anche per le sue fattezze androgine, l’attrice di matrice anglosassone Tilda Swinton. Il suo ruolo è di intrattenere col cuoco di casa una relazione extraconiugale che sembra una ripicca nei confronti dell’algida cerchia parentale che non sopporta più, a partire dal marito, il nuovo padrone (Pippo Delbono, più noto in ambito teatrale). L’intesa col cuoco, che rompe gli schemi di una obsoleta concezione classista della vita e che appare quindi come unica luce nel buio di quelle menti aggrappate a un passato che non torna, le apre la strada verso una sorta di redenzione. Con dolore, sceglie di scappare di casa. L’unica a capire il suo gesto è la figlia (la sempre ottima Alba Rohrwacher), che pur fra le lacrime dà cenni di assenso a una decisione così estrema. Il momento della fuga è senza parole. Madre e figlia parlano solo mediante gli occhi. Anche se muto, è forse qui il momento in cui irrompe l’amore, sinora raccontato in forma di assenza. Assenza che ora, finalmente, diventa essenza. L’amore è stato descritto sinora come un sentimento negato, reso impossibile da un contesto di tacita violenza psicologica che ha avvolto sagome sempre più spettrali, smarrite in quel sostanziale deserto chiamato casa. L’immobilità si scioglie solo nell’epilogo, dove affiora il desiderio di libertà da sempre represso, un senso di stimolante evasione, l’anelito a trasformare la disillusione esistenziale in un sogno da materializzare.

I toni del film sono decadenti, come si addice a quella cultura che narra l’inquietudine dei passaggi epocali in cui l’umanità conosce ciò che si lascia alle spalle ma ignora quel che l’attende.

Curiosità. Il titolo del film è il verso di un’aria dell’«Andrea Chenier», di cui si vede uno spezzone ricavato dal film Philadelphia di Jonathan Demme. La protagonista dell’opera di Umberto Giordano ama il poeta condannato alla ghigliottina ed è a sua volta segretamente amata da un servitore rivoluzionario. Nel film, il servitore è il cuoco, rivoluzionario senza saperlo.

 

Imprevisti di una vacanza di studio

Un aitante studente americano è ospite in Italia nella residenza di un professore che ogni anno, per consuetudine, aiuta un dottorando. Quando lo studente ne conosce il figlio, i due cominciano a frequentarsi e a comprendersi sempre più profondamente. Si intitola Chiamami col tuo nome (Call Me by Your Name, 2017) il secondo capitolo del trittico, dove il regista intraprende un viaggio quasi psicanalitico affrontando il tema dell’omosessualità e attingendo alla poetica bertolucciana ma forse, ancora una volta, ai tormenti sensuali di Visconti. Il titolo del nuovo film di Guadagnino racchiude un sostanziale messaggio: non bisogna temere di identificarsi con chi si ama, perché se lo si ama davvero, è una delle esperienze più belle, preziose e complete, di quelle in grado di far superare paure, pregiudizi e insicurezze.

Il film è la storia d’amore tra il laureato, ormai adulto, e l’adolescente, non ancora consapevole delle proprie inclinazioni sessuali. Una vacanza che si sviluppa fra passeggiate in bicicletta, soste all’ombra degli alberi, divagazioni culturali riferite soprattutto all’ellenismo, con frequenti rimandi alle memorie personali. La vita prosegue piacevole fra gite in bici e bagni in piscina. La piscina è un must di Guadagnino, come si evince anche nel meno convincente A Bigger Splash (2015), ispirato a un classico thriller francese, La piscina (1969) di Jacques Deray, dove a campeggiare non è tanto l’amore in senso proprio quanto un ossessivo desiderio.

 

 

Chiamami col tuo nome ci porta invece verso un amore puro nel sereno clima della campagna, in una località imprecisa dell’Italia settentrionale (ma sappiamo che le riprese sono state effettuate a Crema e dintorni). Qui non ci sono problemi di etichetta. Si passa il tempo in piena libertà, in pantaloncini e ciabatte, nell’incanto di una estate italiana dolce e piacevole. Ma i tormenti dell’anima sono dietro l’angolo. Fra i due nasce una attrazione che sulle prime si sforzano di reprimere ma che alla fine deflagra facendo cadere ogni tabù. Guadagnino fa però prevalere l’innocenza sulla colpa, la tenerezza sullo scandalo, l’aspetto che rassicura sulla cupezza che si potrebbe immaginare di fronte agli sviluppi straordinari di un incontro ordinario. Vicenda che prende la piega giusta anche grazie all’atteggiamento aperto e benevolo dei familiari del giovane. Vi è una marcata differenza fra i due amanti: se per il maggiorenne si tratta di un innamoramento tutto sommato normale, il ragazzo ne vive il travaglio e i patimenti, come è inevitabile per chiunque sia alle prese con la sua coscienza e si interroghi sulla propria identità. Più che una storia gay, sembra un inno all’estetica dell’amore, il canto a una complicità che cresce in un contesto ambientale quasi evanescente, dove la materia sembra evaporare, favorita anche dai silenzi che sovrastano le parole. Persino nella colonna sonora si respira un’aria innaturale di fantasiose commistioni: da Bach e Satie al pop anni Ottanta e oltre.

Omosessuale dichiarato, Guadagnino non mira tanto a giustificare la diversità, quanto a definire e costruire fra i due un legame così forte da fargli sentire il bisogno di chiamarsi l’uno col nome dell’altro, quasi a voler cercare se stessi attraverso la reciproca totale conoscenza, all’inseguimento di un amore pieno e completo che appunto li induce a rendere interscambiabili i nomi di ciascuno. In pratica è un film di formazione, ma un tipo di formazione 'alternativa' cui il nostro livello di civiltà non ci ha ancora abituati. L’attesa dell’amore è finalmente amore vero e vissuto. L’epilogo racconta infatti il superamento del pudore, la caduta delle maschere, l’abbandono l’uno fra le braccia dell’altro. L’abbandono come simbiosi fisica e spirituale. «Noi siamo l’Amore», potrebbe essere il sottotitolo!

È palese in Guadagnino la volontà di indirizzare lo spettatore verso la conoscenza del piacere visivo servendosi di paesaggi e passaggi sofisticati, sostenuti da una recitazione senz’altro ben curata. Quasi un esercizio di stile fine a se stesso, se non fosse per l’intensità della trama.

Pagina memorabile del film è quella del lunghissimo primo piano dell’adolescente (l’efebico Timothée Chalamet, attore feticcio di Guadagnino) mentre scorrono i titoli di coda, con quella sua espressione mutevole a seconda degli stati d’animo, delle emozioni e dei ricordi che si rincorrono nella sua mente. La magica intimità della sequenza, scandita dalle note della canzone «Vision of Gideon» di Sufjan Stevens, è la prova provata che il giovane ha capito la vita e le sue complicanze, la vita che ha senso solo se sorretta dall’Amore con la A maiuscola, quello che vanifica i condizionamenti del sesso tradizionale, che annulla i pregiudizi, che ti evita persino il logorante assillo del tempo che corre e che ti fa invecchiare. Bene fa chi sostiene che «amare significa fondersi». 

Passa alla SECONDA PARTE

[ sarà pubblicata il 26 maggio 2023 ]

Back to top
Condividi