L'insegnamento
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Vasi da riempire o fiaccole da accendere?
Verso una pedagogia della libertà
«Non insegno mai nulla ai miei allievi. Cerco solo di metterli in condizione di poter imparare». | Albert Einstein
«Chi osa insegnare non deve mai smettere di imparare». | John Cotton Dana
Quello dell’insegnamento è un tema 'caldo', si può dire all’ordine del giorno nei propositi dei politici, nei programmi tv o nelle pagine dei giornali. Persino nelle situazioni quotidiane è un argomento di conversazione o, più spesso, di lamentela. Ma di che si tratta, veramente?
Etimologicamente insegnare viene dal latino tardo 'insignare' che significa incidere, imprimere dei segni. Henry Adams, a mio parere proprio in questa direzione, disse che «un insegnante ha effetto sull'eternità; non può mai dire dove termina la sua influenza». Ciascuno dei lettori a questo punto potrà ricordare un suo maestro, che in un modo più o meno positivo lo ha 'segnato'. A me, per esempio, viene immediatamente in mente, e in positivo, la mia professoressa di liceo Lorena Pini, curatrice di questa rubrica, a cui dedico di cuore queste mie prime righe.
L’insegnamento è dunque qualcosa che ha degli effetti duraturi nella vita. Da qui la sua straordinaria importanza.
Mefistofele, Faust, Goethe
Forse ha ragione Mefistofele quando, riferendosi a Dio, dice dell’uomo: «Vivrebbe un poco meglio tu non gli avessi dato qualche lume del cielo. Lo nomina ragione: e lo usa soltanto per vivere più bestia di ogni bestia». È il fallimento della cultura e della civilizzazione illuminista (incarnata dal famulus di Faust, Wagner), imperniata sul concetto ambiguo e problematico di progresso? È questo che ci vuole dire Goethe? Sembra che l’esordio della Tragedia rinforzi questa convinzione: «E le ho studiate, ah! Filosofia, giurisprudenza e medicina – e anche purtroppo, teologia – da capo a fondo, con tutto l’ardore. Povero pazzo: e ora eccomi qui che ne so quanto prima. Dicono ‘professore’. Persino ‘maestro’, dicono: e sono già quasi dieci anni che – su e giù, dritto e traverso gli studenti li meno per il naso... E mi è chiaro che nulla possiamo conoscere»!
Questa confessione va presa molto sul serio perché per Goethe-Faust il principiare la Tragedia con queste parole denuncia uno smarrimento totale (ricorda la Confessione di Tolstoji) e una convinzione di insufficienza totale degli strumenti culturali di stampo razionalistico per accedere a una conoscenza vera e assoluta, anelito frustrato che porta il 'rappresentante dell’umanità' Faust sulla soglia della morte. Si ripete il socratico 'so di non sapere' e la morte tramite veleno, morte subita da Socrate e solo in autonomia tentata, ma schivata, da Faust.
In una sua installazione artistica sul Faust di Goethe, l’artista Claudio Parmiggiani ci restituisce «una sola immagine; l’odore acre di un gigantesco rogo di libri», quale suggerimento per l’essenza pedagogico-umana della Tragedia e il suo sviluppo.
Si noti bene che, ovviamente, quanto detto non è per sostenere che lo studio, e con esso i testi antichi e i grandi autori del passato, siano inutili. Anzi! Ritengo però che sia necessario considerarli in maniera diversa, come strumenti – e quindi non fini a sé stessi e da ripetere pappagallescamente – attraverso cui sviluppare l’attenzione e quindi volti a una conoscenza incarnata e vivace – o 'conoscenza vissuta' come la qualifica Federico Faggin – , non meramente intellettualistica. Come mezzi, dunque, per esercitare il pensare, per farsi domande senza fissarsi in ideologie e paradigmi cristallizzati perché essi finirebbero con lo sterilizzare l’esercizio attivo del pensare, e la possiamo intendere come quell’attività che porta alla ricerca (non a caso Socrate diceva che una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta) e mai a una conclusione definitiva.
Questo per dire, nel solco di Socrate, di Montaigne e di molti altri filosofi, che ciò che veramente importa nella vita è di amare ciò che si sta facendo. La traduzione contemporanea di questo anelito potrebbe essere detta in questo modo: fare controvoglia o per dovere un percorso di studi al fine di poter poi trovare un posto di lavoro, ad esempio, genera inevitabilmente frustrazione, insoddisfazione e un sentimento di non libertà. Non è possibile essere contenti e felici se si compiono delle azioni non perché le stesse interessano, ma in vista di ciò che procureranno (lavoro, denaro, eccetera).
Ancora Parmiggiani sembra interpretare al meglio questo anelito, faustiano ma anche estremamente attuale, quando scrive «che la cosa più urgente non mi sembra l’ubriacarsi in quella cultura dell’effimero la cui esistenza non ha mai salvato nessuno dall’ansia di vivere meglio, ma estrarre da che crediamo sia davvero e profondamente cultura o arte, idee la cui intensità e forza siano pari a quella della fame».
Inoltre, lo storico della filosofia Pierre Hadot sostiene che tutta la filosofia non è stata altro che 'modo di vivere' e non è consistita altro che da 'esercizi spirituali'. È proprio ciò che troviamo nel Faust e in tutta l’opera goethiana, ripresa e approfondita da Rudolf Steiner nell’Antroposofia.
Rudolf Steiner
L’esercizio della 'presenza', ad esempio – diventato oggi molto attuale attraverso la pratica laica, ma di origine buddhista, della 'mindfulness' –, lo ritroviamo nel Faust in tre momenti di sospensione temporale che si riferiscono alla scommessa fatta da Faust con Mefistofele nella prima scena dell’opera: «Dovessi dire all’attimo: ‘Ma rimani! Tu sei così bello!’ allora gettami in catene, allora accetterò la fine»! Detto in altri termini, potrebbe essere utile «elaborare una pedagogia che insegni ad apprendere, ad apprendere per tutta la vita dalla vita stessa»; in questo aforisma di Rudolf Steiner sta proprio tutto l’anelito faustiano!
Mi chiedo: è possibile rivitalizzare una pedagogia di modo che sia al passo con i nostri tempi?
Il dialogo socratico e il monologo-dialogo faustiano consistono principalmente in due fattori: l’ascolto e il rispetto, chiavi di volta per una pedagogia scolastica e sociale che comprendano seriamente sé stesse e costitutive dei molteplici contenuti intenzionali etici dell’uomo, di tempra universale. Penso che questa sia la strada migliore da percorrere, a cui aggiungerei ancora un elemento, che potremmo chiamare auto- educazione: il maturare una consapevolezza che in ultima istanza, se si vuole cambiare e migliorare il mondo, l’idea di adeguarsi ad esso è una stoltezza e una contraddizione; chi vuole cambiare il mondo non può che cominciare nel cambiare sé stesso.
Credo che la mia generazione e quelle future non potranno che trarre benefici dagli aspetti sopra accennati dell’ascolto, del rispetto, del dialogo, della presenza di spirito e dell’auto-educazione, tutti da intendersi e leggersi nel solco dell’intuizione di Plutarco: «Gli studenti non sono vasi da riempire ma fiaccole da accendere», intuizione ripresa in pieno Rinascimento da Montaigne con il concetto di 'testa ben fatta' anziché 'ben piena', come pure nel 1999 da Edgar Morin nel libro intitolato, appunto, «La testa ben fatta». Oppure, in aggiunta e in altri termini, un esercizio dell’attenzione («Le génie, c’est l’attention», scrive Simone Weil) su ciò che viene detto e ascoltato, senza imposizioni o trucchi: tutto il contrario di quella «sapiente mescolanza di istruzione e di imbottitura del cervello» che Simone Weil, già nel 1933, registrava criticamente come la funzione richiesta dall’istituzione scolastica agli insegnanti che, in ultima analisi, porta a «istruire senza chiarire fino in fondo, perché chiarire sarebbe pericoloso».