L'insegnamento
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Alla ricerca del tempo (sportivo) perduto
Memorie sparse di un atleta qualunque
Il campo del San Simpliciano (Milano) oggi
«Lo sai che più si invecchia, più affiorano ricordi lontanissimi…», così inizia la meravigliosa canzone «Mesopotamia» di Franco Battiato. Canzone del 'Maestro' ben interpretata anche da Gianni Morandi.
Ma in questo mio articolo non voglio scrivere di musica, per questo argomento appuntamento al prossimo.
Queste saranno riflessioni di sport. Sarà quindi perché i miei anni aumentano che mi si stagliano nitidi nella mente alcuni insegnamenti appresi nella mia gioventù da adolescente sportivo. Ed ecco che mi ritrovo in quel campo sportivo di Segrate, alle porte di Milano, in un freddo autunno milanese dei primi anni ’70. Giocavo a calcio negli allievi della mitica «Voluntas Gloria», così si chiamava la squadra di quella città. Negli spogliatoi, pieni di ormoni adolescenziali, si parlava di ragazze e con noi chiacchierava anche il nostro allenatore, una figura carismatica col suo accento tedesco (o austriaco), un nome e cognome che inequivocabilmente rivelava la sua origine: lo ricordo ancora e lo voglio citare, Volkmar Samounigg. Chissà ora dove sarà, se ci sarà; pensò e spero però che ovunque egli sia gli farà piacere questa antica citazione. Parlavamo tra noi ragazzi di sesso e d’improvviso una sua perentoria affermazione calò tra le nostre parole, rafforzata dalla sua inflessione teutonica: «Ragazzi, va bene il sesso, giusto praticarlo con attenzione, ma io con le donne preferisco parlarci, bisogna parlarci. Ricordate, questo è importante». Ma quanto sono state positivamente catechizzanti queste parole nella mente di un adolescente, a ripensarci ora, una cinquantina d’anni dopo, mentre la cronaca con una frequenza impressionante ci mostra orribili femminicidi e violenze nei confronti delle donne?
L’allenatore per un ragazzo può essere veramente importante e trasmettere insegnamenti fondamentali, che possono rimanere come pilastri nel proseguo della vita. Erano tempi in cui i genitori non si sognavano neanche lontanamente di accompagnarti al campo, le 'scuole calcio' non esistevano; giocavi al calcio in squadra dopo un provino, se era andato bene ti tesseravano senza costi, prendevi i mezzi pubblici o il pullmino della squadra e andavi ai tuoi allenamenti. Punto. Durante le partite pochissimi genitori, a volte nessuno. Avevano altro da fare e da pensare. Così crescevi imparando a gestirti da solo le tue passioni. Certo, i genitori c’erano sempre, presenti nei momenti cruciali, ma la normale gestione della vita e dello sport preferito era cosa tua. Così si imparava, anche nello sport, che in quel modo diventava realmente maestro di vita.
Ricordo una vecchia sigla di uno 'sceneggiato televisivo' alla tv dei ragazzi in bianco e nero di una volta, «I racconti di Padre Brown», tratto dai libri di Chesterton, protagonista un grande Renato Rascel. Nella sigla una partita di calcio, col prete protagonista in tonaca che giocava al calcio coi ragazzi; fresche riprese televisive con quella canzone che ho ancora nelle orecchie, disponibile su Youtube se la volete cercare. Ve la consiglio. Su quel campo in terra battuta dell’oratorio di San Simpliciano a Milano affiora quindi un altro 'ricordo lontanissimo': il nostro prete che giocava insieme a noi, in una porzione delle nostre interminabili partite a calcio. Improvvisamente, tra un suo impegno e l’altro compariva la sua nera figura autorevole, coi suoi occhiali, il suo naso 'importante0' e le scarpe nere e lucide non propriamente sportive, potevi dirgli di no? Il capo era lui, e con estrema atleticità giocava con noi. E con quella presenza fisica, con noi, ci insegnava molto; insegnamenti extra-religiosi, di vita comune, di comportamento in campo e nella vita. Poi tornava ai suoi compiti quotidiani di pastore delle anime, anche se custodire il gregge era sicuramente anche questo giocare con noi. Qualche volta si preparava e scendeva in campo in tenuta sportiva, magari con delle lenti a contatto, e in quei frangenti era quasi irriconoscibile, svestito della tonaca, uomo tra gli uomini.
Uno degli insegnamenti degli sport di squadra è che un tuo gesto, una tua giocata, determina il destino degli altri tuoi compagni, li può portare alla vittoria o alla sconfitta. Sei responsabile per gli altri. In quel periodo giocavo il prestigioso Torneo Primavera nei campi dell’Istituto Leone XIII sempre a Milano con le divise giallorosse del S. Simpliciano. Dai miei ricordi giovanili ovviamente si svela sempre più quell’F205 sul mio codice fiscale. A calcio non ho mai avuto i cosiddetti 'piedi buoni', ma sopperivo con la volontà, la caparbietà, una certa velocità e durezza fisica. Non mi mancava la determinazione negli interventi fisici. Così il mio ruolo nelle squadre di calcio era quello del rude terzino destro o stopper, fisso nella marcatura a uomo su un attaccante importante degli avversari, per annientarlo e renderlo innocuo. Un ruolo che nel calcio di oggi non esiste più.
Quel giorno giocavamo con la squadra prima in classifica, la «Milanina». Eravamo riusciti a tenere con fatica lo zero a zero fino a cinque minuti dalla fine e improvvisamente non so cosa mi successe, feci uno stupido e inutile fallo di mano in area. Dai miei compagni solo silenzio e qualche gesto inequivocabile, forse qualche ingiuria a bassissima voce, ci mancava che l’arbitro decretasse anche qualche ammonizione o espulsione. Ovviamente rigore contro a pochissimi minuti dalla fine, segnato dagli avversari, partita persa esclusivamente e scioccamente per colpa mia. Rientrato negli spogliatoi a fine partita, farsi la doccia e cambiarsi in fretta per sparire fu un calvario. Il pomeriggio di quella domenica all’oratorio fui protagonista mio malgrado, qualcuno mi consolò, qualcuno mi rimproverò bonariamente, qualcuno mi prese in giro, nessuno però mi aggredì con cattiveria. Pur essendo eroe in negativo, ebbi l’impressione che la comunità mi volesse comunque bene. Sicuramente il merito fu di quel prete in tonaca che scendeva in campo con noi, che so ancora vivo e vegeto da qualche parte in Lombardia.
Alla fine grazie allo sport imparai che si può sbagliare, ma se le scelte che comportano il tuo veniale errore sono fatte inconsapevolmente, può essere che gli altri ti perdonino. Ricordo una frase dei nostri allenatori, dicevano: «Andate incontro al pallone senza paura». Scusate se vi sembra poco.
Claudio Gentile (Italia) 'marca a uomo' Zico (Brasile), 1982
Le mie caratteristiche da calciatore che prima descrivevo mi portarono in quegli anni anche ad altri due episodi. Il primo fu quando in una partita di un campionato ARCI marcai in modo strettissimo a uomo il mio attaccante avversario per tutta la durata della partita; una marcatura asfissiante, fatta di anticipi e contrasti decisi ogni volta che lui prendeva il pallone fino ad annullarlo per tutta la durata della partita. Quel ragazzo doveva essere un buon punto di riferimento per gli avversari, spesso cercava di smarcarsi per chiamare il pallone ma io, inflessibile, riuscii a non fargli fare neanche una buona giocata per tutta la partita. Fiero della mia prestazione, all’uscita dal campo al termine del gioco mi apprestavo a dargli la mano, come consuetudine: lui improvvisamente mi si rivoltò contro, aggredendomi fisicamente, e se non fosse stato per gli altri giocatori e l’arbitro non so come sarebbe finita. L’avevo proprio esasperato, ma per me tutto sarebbe finito nella lealtà della competizione sportiva, per lui evidentemente no. Finì con qualche giornata di squalifica per tutti e due; in quell’occasione capii cosa vuol dire essere accusato ingiustamente e imparai quali possono essere le reazioni di un essere umano quando viene 'messo alle strette', indipendentemente dalle circostanze.
Il secondo episodio accadde in un torneo aziendale, lavoravo già ed ero più vecchio di qualche anno. La mia squadra era arrivata in finale, in quella occasione iniziai la mia partita in panchina, come riserva. A secondo tempo già iniziato, l’allenatore decise di farmi entrare in campo per marcare l’avversario più pericoloso; iniziai a 'francobollare' spietatamente il mio avversario ed effettivamente riuscii a non fargli toccare palla, annullando tutte le sue giocate. Fino a farlo sbottare, la conseguenza fu un suo brutto fallo su di me, la mia reazione e l’espulsione di tutti e due. Tutto ciò ad un quarto d’ora circa dal mio ingresso in campo. Perdemmo la partita, arrivando comunque secondi nel torneo, un ottimo risultato. Lapidario fu il commento dell’allenatore negli spogliatoi, che mi sorprese; mi disse: «Bravo, sei riuscito a fare uscire dal campo il più pericoloso degli avversari!». Ricevere quel machiavellico complimento mi fece capire che nella vita si può essere utili pur senza possedere grandi qualità: pur se pare che Machiavelli non lo abbia mai scritto, «Il fine giustifica i mezzi».
Il professor Fassi era un omone alto, corpulento e coi baffi. Di primo acchito poteva decisamente non sembrare un professore di educazione fisica, la sua immagine era un po’ contrastante con la materia che insegnava, ma in gioventù era stato pugile, a testimoniarlo il naso tipico di chi ha praticato questo sport. Mi pare di ricordare che esercitò anche la lotta libera. Fu lui che durante le lezioni di ginnastica alla scuola media A. Panzini di Milano, dopo avermi visto all’opera in un esercizio che lui ci faceva fare, mi disse: «Bravo, hai un ottimo scatto, perché non provi ad iscriverti ad una società di atletica per diventare velocista»? In quel periodo giocavo a calcio, e avevo una certa consapevolezza di avere quella dote sportiva, ma le parole del professore mi convinsero a provare in contemporanea anche quello sport. Ma dopo qualche allenamento nella gloriosa Arena di Milano, iscritto alla mitica società Aics Duina, nelle prime gare in quel prestigioso sito constatai con una certa delusione da ultimi e penultimi posti conseguiti che, in confronto ad altri, non ero poi così forte in quella specialità.
Abebe Bikila, l’etiope che vinse l’oro alle Olimpiadi di Roma correndo senza scarpe
Molti anni dopo. l’atletica divenne il mio unico sport, avevo già passato i quarant’anni quando esordii nella mia prima maratona. Troppi sono gli insegnamenti sulla propria mente e il proprio fisico che offre questa specialità, bisognerebbe scrivere un pezzo solo su quello. Fatto sta che da allora furono anni di allenamenti sulle lunghe distanze, maratone e sky-race, fino all’ultima maratona corsa nel 2016. Da allora solo pochissime mezze maratone, fino a correre solo distanze brevi e corsette. Ora purtroppo ho raggiunto 'il peso massimo della mia vita'. Ma non mollo, anche se questa volta i chili da perdere sono tanti, ho davanti a me un obiettivo, il sogno di tutti i maratoneti. Se riesco ad iscrivermi, tra un annetto, New York 2024 è lì che mi aspetta. Ho ormai quella che si dice 'una certa età', ma la testa non vuole mettersi a dieta; l’unico scopo al momento che mi potrebbe costringere a farlo è correre ancora una volta i 42'195 metri, questa volta nella 'Grande Mela'. Chissà mai che lo sport riesca ad insegnarmi qualcosa ancora una volta, sperando che non sia quello che la vita inesorabilmente ci ricorda, che spesso purtroppo per vari motivi non tutti i sogni si possono realizzare.