La giovinezza

Diamante pazzo

Un genio giovane e folgorante nella storia della musica

di Franco Ferramini

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Syd Barrett

Ci sono musicisti e artisti che esauriscono la propria vena creativa e geniale in pochi anni, generalmente durante la gioventù.

Tanti musicisti a causa di una vita dissoluta sono morti giovani, ma alcuni sono sopravvissuti a se stessi, vivendo il resto della propria esistenza in un limbo creativo, lontano dalle luci della ribalta e dallo sfarfallio della celebrità. Intendiamoci, non parlo di quelle che si possono definire “meteore”, intese nel senso di brevi apparizioni senz'altro seguito, qui si parla di veri e propri geni creativi che sono rimasti vivi, seppur lontani dal resto del mondo.

Questa è la storia di uno di loro. Arthur Max Barrett, nato a Thaxted il 28 luglio 1909, è stato un apprezzato patologo di professione, botanico, contrabbassista. Un personaggio d’eccellenza nella Cambridge di quei tempi. Dopo la sua morte, una sala dell’ospedale Addenbrooke di Cambridge fu intitolata a suo nome, la «Barrett Room». Costui ebbe cinque figli. Il quarto, nato il 6 gennaio 1946, fu chiamato Roger Keith. Roger Keith Barrett, fino all’età di quattordici anni era solo interessato a creare giochi di parole, onomatopee, e gli piaceva disegnare. Fu grazie al fratello maggiore, già musicista, che a quell’età comprò un ukulele, poi un banjo, e infine una chitarra. La sua famiglia era contenta che lui suonasse, lo incoraggiò sempre in questa sua passione. A modo suo, è stato fortunato. Cominciò a passare ore e ore chiuso in camera, a “suonare suonare” in modo quasi ossessivo, c’era solo la chitarra. Stava nascendo un grande musicista, uno dei più grandi creativi del rock di tutti i tempi. Ma, parafrasando Giacomo Leopardi, finirà anche il periodo di solitario “studio matto e disperatissimo”; il mondo lo attendeva.
Qualche numero civico distante da lui, nella stessa via, abitava un altro ragazzo, di tre anni più vecchio di lui. Questo ragazzo si chiamava Roger Waters. I due non s’incontrarono subito, per quegli strani giri che spesso fa la vita, si conosceranno a fondo più in là nel tempo, nei locali presso cui ognuno di loro suonava con la propria band. Tra gli amici del giro di Cambridge c’era un altro ragazzo che suona bene la chitarra, il più carino dei tre, con gli occhi chiari e i capelli lunghi e sciolti. Lui invece si chiamava David Gilmour. Siamo nel periodo tra il 1961 (anno della morte del padre di Roger Keith) e il 1964. In quel periodo i tre conobbero a Cambridge anche un polistrumentista atipico, veniva da Birmingham, gli piacevano le Porsche e le Ferrari e sognava di possederne qualcuna. Il suo nome, Nick Mason. Nello stesso gruppo Richard Wright, grande e colto tastierista. A Roger Keith Barrett piaceva molto un batterista dell’epoca, col suo stesso cognome, Sid Barrett, fu così che cominciò a farsi chiamare come lui, ma per distinguersi si faceva chiamare Syd, cambiando la “i” in “y”. E siamo così arrivati a Syd Barrett, il “diamante pazzo”. Syd Barrett è un musicista che è rimasto tale solo per pochi anni della sua giovinezza, bruciando innovazioni e genialità come in una corsa affannata per arrivare a creare qualcosa che rimanesse nella storia prima che si bruciasse anche il suo cervello, mente offuscata da una vita assolutamente sregolata a base di alcool, donne e droghe di tutti i tipi.

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I Pink Floyd si uniscono per sostenere le donne arrestate per Gaza

Ma al contrario di quasi tutti i “belli e dannati” nella storia del rock, lui è rimasto vivo. Vivo e vegeto, quasi solo “vegeto” per l’adorante platea degli appassionati. E nella sua frenetica vita giovanile ha gettato le basi di un gruppo che, perdonatemi, “ecchevvelodicoafare”, si chiama Pink Floyd. Lui pensò al nome, unendo i cognomi di due musicisti, Pink Anderson e Floyd Council. Con Richard Wright di Londra, si ritrovarono tutti nella capitale. La band si chiamò prima Sigma 6, poi Abdabs, e ancora, con l’arrivo di Syd Barrett, Spectrum Five. Tutti erano ospiti di Mike Leonard, un signore estroso e probabilmente facoltoso, capace di registrazioni avveniristiche, in una villa di Highgate, sobborgo di Londra, famoso perché nel suo cimitero riposa Karl Marx. In quel luogo Syd Barrett si inventò il nome del gruppo, definitivamente Pink Floyd nel 1965, oltre a molto, molto altro. Una fucina di idee, quasi frenetiche, che andavano dalla lettura di libri di astronomia alla frequentazione del cimitero la sera, non per omaggiare il padre del socialismo, bensì perché affascinato dalla leggenda del vampiro seicentesco che si aggirava da quelle parti. In quel luogo si stavano inventando sonorità e musiche che andavano al di là di una rapida commercializzazione, lì nasceva una sorta di rock psichedelico, a tratti schizofrenico, ma immensamente bello. Quasi un rock “spaziale”, tanto che Stanley Kubrick sembrava interessato a quella primissima musica dei Pink Floyd per la colonna sonora del suo “2001 odissea nello spazio”, trattativa mai andata in porto.

The Piper at the Gates of Dawn

The Piper at the Gates of Dawn

Nell’agosto 1967 i Pink Floyd pubblicarono il loro primo album, “The Piper at the Gates of Dawn”, unico album di questo gruppo pubblicato sotto la direzione di Syd Barrett. In quest’album c'è forse un capolavoro, riconoscibile punto di partenza per tutta la futura produzione dei Pink Floyd, “Interstellar overdrive”, suonato dal vivo nel 1969 anche con Frank Zappa. Quest’album fu preceduto qualche mese prima da un singolo, Arnold Layne, brano di Syd il cui particolare testo per quell’epoca è dedicato a un personaggio reale, un travestito che si aggirava a quei tempi per Cambridge rubando indumenti femminili alle studentesse di un collegio. Ascoltate e guardate il video originale di questo brano su YouTube, nella sua apparente semplicità è emozionante cogliere le radici di molta di quella che oggi si definisce “musica prog”. David Bowie nel 1973 non si fece ovviamente sfuggire un altro brano del 1967 dei Pink, “See Emily Play”, e magistralmente lo riprodusse anche lui. Lo stesso Duca Bianco, più avanti, canterà dal vivo con David Gilmour e Richard Wright anche “Arnold Layne”, nel maggio 2006, video su YouTube. Syd Barrett influenzò molti altri musicisti, da Brian Eno a Jimmy Page. Tra giugno e luglio del 1968 uscirà il secondo e ultimo album in cui apparirà ancora Syd Barrett, in parti sempre più marginali e sempre più allontanato dal gruppo, “The saucerful of secrets”.

Ma torniamo alla sua storia personale, alla sua breve, giovanile, carriera musicale. Syd continuava ad assumere alcool e droghe di tutti i generi: un misto di “canne”, LSD, Mandrax, un potente sedativo assunto da lui in dosi da cavallo. Gli anni della sua produzione musicale purtroppo furono contraddistinti da un progressivo decadimento psico-fisico dovuto a queste e altre sostanze. E forse a qualche malattia sulla cui esatta definizione si sono pronunciati nella storia eminenti psichiatri di tutti i generi, potendo elaborare solo ipotesi perché non si è mai venuti a conoscenza di un esatto referto di un medico a seguito di una semplice visita. Probabilmente dallo psichiatra non c’è mai andato. Non dimentichiamo che Syd era anche un ragazzo colto, aveva letto e leggeva molto e le sue intuizioni musicali in quel periodo erano prolifiche e continue. Era però sempre più difficile per Waters, Wright e Mason convivere con le sue follie, con i suoi colpi di testa. Un giornalista scientifico, Mario Campanella, ha scritto un libro “Syd Diamond - Un genio chiamato Barrett” in cui su basi scientifiche afferma che Syd era affetto da sempre da una forma di autismo, la “Sindrome di Asperger”. Unite tutto ciò e fatevi un’idea. Ma Syd era anche un bellissimo ragazzo, con uno sguardo magnetico: “Sex and drugs and rock and roll”.

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The Division Bell

Fu così che, mentre i Pink Floyd diventavano sempre più “i Pink Floyd”, era sempre più difficile convivere con i colpi di testa di Syd: si presentava sul palco completamente “fatto” simulando di suonare, in realtà erano per lui concerti muti; entrò in pigiama in uno studio per una trasmissione televisiva; nella prima decisiva tournee americana, dove non si poteva sbagliare niente, fallì clamorosamente l’attacco di un pezzo. A volte durante i concerti si “addormentava” suonando a ripetizione un'unica nota. In qualche giorno di relativa lucidità affittava un’auto, spariva e non si presentava sul palco la sera. Syd, che era il leader, il genio che li aveva potentemente influenzati, colui che aveva indirizzato per sempre la musica dei Pink Floyd, stava diventando un peso per tutti gli altri. A Natale del 1967 Roger Waters, due soli civici più in là nella nativa Cambridge, fu costretto a chiamare David Gilmour, affidandogli il ruolo di chitarra solista, sostituendo, di fatto, Syd a cui lasciarono la chitarra ritmica e la voce solista. Fino a quel fatidico giorno, di rientro da una problematica tournee americana (tormentata ovviamente a causa di Syd), in cui i Pink Floyd dovevano suonare a Southampton. Partirono col furgone del gruppo, avrebbero dovuto passare a prendere Syd a casa. Ma tirarono dritto. Syd Barrett era definitivamente fuori dai Pink Floyd.

Qualche mese di pausa, poi il ritorno in studio di registrazione con due album: “The Madcap Laughs” e “Barrett”, ma erano in gran parte brani già composti in passato, e gli album non ebbero il successo che il produttore avrebbe sperato confidando ancora, nonostante tutto, nel genio assoluto di Syd. E nonostante l’aiuto di Wright e Gilmour, quest’ultimo addirittura in qualche brano alla batteria.
Poi, iniziò l’oblio. Intanto i Pink macinavano successi dietro successi, fino al 1973, il Disco con la “d” maiuscola. Quindici anni in continuazione nelle classifiche statunitensi, trent’anni invece di permanenza nelle stesse, cinquanta milioni di copie vendute sul pianeta. Qui si parla di “The dark side of the moon”, il lato oscuro della luna. Qualcuno potrebbe dire il lato oscuro del successo della band, quel brano “Brain damage” che è un chiaro riferimento a quell’uomo che ora vive in un isolamento neanche tanto splendido insieme alla madre nella sua casa di Cambridge, sempre più obeso, dipingendo quadri astratti, praticando il giardinaggio, non sapendo in sostanza più cos’è la musica. Problemi economici no, non ne ha, i Pink Floyd continuano a versargli le royalties. Problemi col suo cervello sì, e molti. È un ritiro dignitoso, quasi da semplice scapolo pensionato senza problemi economici, anche se non esce quasi mai di casa, deludendo gli appostamenti lunghissimi di fan che arrivano da tutto il mondo e si nascondono nei pressi della sua casa per adocchiarlo o riprenderlo per qualche istante.

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I Pink Floyd continuarono alla grande nei loro successi internazionali, fino a quel giorno, il 6 gennaio 1975, quando Syd compì ventinove anni. Mitici studi di Abbey Road, Londra. Si registravano “Wish you were here” (Vorremmo che tu fossi qui), un titolo per un capolavoro che è impossibile non pensare che possa essere dedicato a Syd. Ma ancora di più, in quell’album, “Shine on you crazy diamond”. “Ricordi quando eri giovane, splendevi come il sole, splendi su di te, diamante pazzo. Ora c’è un’espressione nei tuoi occhi, simile ai buchi neri del cielo, splendi su di te diamante pazzo, sei stato catturato nel fuoco incrociato d’infanzia e notorietà". In quel famosissimo studio di registrazione, in quel giorno, si compì un fatto a cavallo tra realtà e leggenda, un evento tra il magico e il favolistico. Pare proprio che sia accaduto davvero, lo raccontò Roger Waters. Un uomo obeso, completamente calvo, le sopracciglia rasate, entrò non si sa come negli studi e arrivò a contatto con i Pink Floyd che stavano registrando il loro album. Quest’uomo aveva in mano una busta di plastica con dentro spazzolino e dentifricio. Tirò dritto verso il bagno per lavarsi i denti. Roger Waters era impegnato nelle registrazioni e ogni tanto sollevava la testa dal suo strumento, lo vide, riabbassò la testa per suonare, lo rivide e un pensiero lo tormentò. “È lui? No, non può essere”. “Ma sì, è proprio lui!”. Roger si mise a piangere, non riuscì a trattenere le lacrime. Gli rivolse la parola, gli chiese come mai fosse diventato così grasso e lui gli rispose che aveva il frigorifero pieno di carne di maiale. Tentava continuamente di andare in bagno a lavarsi i denti. Roger e gli altri lo chiamarono e gli dissero che avrebbero voluto fargli sentire un pezzo nuovo. Partì la musica di “Shine on you crazy diamond” e alla fine il commento di Syd fu “It’s too noisy “. “È troppo rumoroso”. Il suo “Brain damage” non era più in grado di apprezzare il brano che lo avrebbe definitivamente proiettato nella storia della musica. Poi Syd chiese quando fosse il momento di suonare il suo pezzo di chitarra. Waters avrebbe potuto illuderlo, lasciarlo suonare un pezzo e fargli credere che sarebbe entrato nel disco. Ma preferì dirgli crudamente: “Non c’è il tuo pezzo, Syd”. Se ne andò in silenzio dallo studio. Syd era morto ormai da qualche anno, lasciando il posto a Roger Keith Barrett.

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Syd Barrett

Qualche anno dopo, nel 1979, uscì un altro capolavoro dei Pink Floyd, “The Wall”, da cui fu tratto anche un grande film diretto da Alan Parker. Il protagonista si chiama Pink, un musicista che ha raggiunto l’apice del successo trovandosi però in una profondissima crisi. Problemi con la moglie, solitudine esistenziale, uso spropositato di droghe, “vermi nel cervello”, queste erano le conseguenze fino alla creazione di un vero e proprio muro tra lui e il resto del mondo. La storia di Syd e, bilateralmente, la depressione e la crisi esistenziale che Roger Waters, due civici più in là nella via di Cambridge, stava vivendo in quel periodo della sua vita.

Qualcuno si è profondamente offeso nel vedere su YouTube (dal semplice titolo “Syd Barrett”, pubblicato da Lucky Starr) un video “paparazzato” in cui si vede un signore calvo, con una pancia spropositata, in canottiera e larghe braghe corte, che esce da casa per una breve passeggiata e poi vi ritorna con un giornale sottobraccio, nell’indifferenza totale dei passanti. Forse vale la pena di vederlo, per capire come visse Syd Barrett, o Roger Keith Barrett secondo il periodo, dal 1971 fino al 7 luglio 2006, anno della sua morte a causa di un tumore al pancreas. In mezzo, quell’“apparizione” nel 1975 negli studi di Abbey Road. Quest’uomo è vissuto sessant’anni, nonostante una gioventù assolutamente sregolata in preda a tutte le sostanze più nocive per l’organismo umano. Il genio si fermò però all’età di venticinque anni. Una giovinezza creativa come manifestazione folgorante di un talento. Scriveva Italo Calvino: “Forse, in fondo, il primo libro è il solo che conta, forse bisognerebbe scrivere quello e basta, il grande strappo lo dai solo in quel momento, l’occasione di esprimerti si presenta solo una volta, il nodo che porti dentro o lo sciogli quella volta o mai più. Forse la poesia è possibile solo in un momento della vita che per i più coincide con l’estrema giovinezza. Passato quel momento, che tu ti sia espresso o no (e non lo saprai se non dopo cento, centocinquant’anni; i contemporanei non possono essere buoni giudici), di lì in poi i giochi sono fatti, non tornerai che a fare il verso agli altri o a te stesso, non riuscirai più a dire una parola vera, insostituibile…”. Così davvero può essere. Chissà se da qualche parte quel bel viso giovane e un po’ perso di Syd Barrett è ancora lì a osservare i suoi compagni di band, ascoltando finalmente senza problemi quei capolavori che i Pink Floyd hanno innegabilmente scritto e suonato per lui negli anni, e risentendo e rivedendo invece quegli artigianali video in bianco e nero, magari la sua primissima “Arnold Layne” (tra i tanti, consiglio “Syd Barrett/Pink Floyd -Arnold Layne” pubblicato da HDPinkFloyd), chissà che Syd non possa finalmente affermare: “Però, ero proprio un genio, peccato che sia finita così…”

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