La trasformazione

Il grande cambiamento

Il boom economico e le donne

di Michela Zucca - SECONDA PARTE

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A partire dalla fine degli anni '50 fino, grosso modo, alla fine degli anni '70, si innescò in Italia una fase di rapida trasformazione delle strutture economiche e sociali.

La fuga delle donne dalle campagne e dalle montagne: un rifiuto femminista radicale

Una delle conseguenze del boom fu la fuga delle donne dalle campagne. Si trattò di una risposta di massa ad una società profondamente maschilista che imponeva alla componente femminile un ruolo fatto principalmente di doveri, di sacrifici e di sottomissione ai bisogni familiari, che va avanti ancora oggi1. Una riposta che non poteva essere più radicale, che portò come conseguenza il collasso demografico di un sistema che, da secoli, si reggeva sul lavoro femminile non pagato.
La spinta all’emigrazione non è mai soltanto economica: anzi, di solito, è fondata sulla speranza di una vita migliore, più libera. Il bisogno di svincolarsi dagli obblighi sociali comincia, per le donne, quando riescono a confrontare modelli di vita diversi, e scoprono che, in città, potrebbero non essere obbligate a vivere soltanto per gli altri, ma che potrebbero legittimamente sperare in una vita diversa, in rapporti diversi, in spazio e denaro e tempo libero per sé.

emigrazione donne trentino

foto: dna.trentino.it

Nelle montagne del Nord Italia, la condizione femminile era cambiata poco dal XIX secolo agli anni ’50 e ’60. Dopo una gioventù brevissima, il matrimonio spesso sanciva uno stato di fatto: le gravidanze iniziate prima della benedizione canonica erano molto frequenti. Le tragedie erano rare: i figli erano bene accetti, e, in mancanza di impedimenti per altre cause o della ferma opposizione delle famiglie, ci si sposava e si metteva su casa. Da quel momento, la vita delle donne cambiava completamente. Da quell’istante, la loro esistenza personale perdeva di importanza, fino a scomparire: ogni loro esigenza sarebbe stata consacrata al marito, ai figli e al lavoro, fino alla morte. Praticamente ogni aspirazione, dopo sposate, doveva essere soffocata, anzi, era peccato persino parlarne. Le donne dovevano occuparsi dei nuovi nati, e i parti si susseguivano senza interruzione; i soldi erano pochissimi, e, in ogni caso, non rimaneva niente da spendere per sé; il lavoro nei campi e la cura della casa, del marito e dei vecchi non dava requie. Si invecchiava in fretta, soddisfacendo i bisogni degli altri: del marito, dei figli, dei suoceri, delle bestie. Le occasioni di svago, quasi inesistenti. Il rapporto sentimentale (se c’era mai stato) si esauriva ben presto, distrutto dalla fatica e dalle difficoltà. In caso di ristrettezze economiche, erano spinte (quasi obbligate) ad andarsene dal paese molto prima dei maschi: in questo modo si controllava il loro potenziale riproduttivo, limitando le nascite all’interno della comunità.

Malgrado l’inferiorità sociale che erano costrette a sopportare, però, nella società tradizionale l’economia di famiglia, di comunità e di villaggio ruotava intorno alla componente femminile, che era senza dubbio la più importante. Perché le donne non solo si occupavano dell’andamento 'ordinario' dell’azienda agricola di famiglia, che era basato su un’agricoltura di sussistenza che assicurava a malapena il nutrimento, in cui erano aiutate dai mariti, ma avevano sviluppato anche delle forme alternative di integrazione del reddito, che portavano in casa anche un po’ di moneta contante: spesso, gli unici soldi per far fronte alle spese straordinarie. Per lunghi periodi durante l’anno, poi, gli uomini erano assenti: facevano i pastori, o dovevano governare le bestie in alpeggio. D’altra parte, una delle caratteristiche principali dell’economia tradizionale è sempre stata quella della multiprofessionalità, perché l’agricoltura, da sola, non è mai riuscita ad assicurare il sostentamento.

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Professione: balia

Le donne avevano sviluppato delle vere e proprie professioni, che le portavano lontano da casa, che permettevano non solo di mandare avanti la famiglia, ma anche di portare all’interno della propria comunità rilevanti elementi di rinnovamento culturale e di qualità della vita. A Claut, in Val Cellina, in Friuli, partivano a primavera con i cucchiai e i mestoli di legno che gli uomini avevano intagliato durante l’inverno, e stavano via per mesi interi, ritornando in autunno quando avevano esaurito il carico.
Quando il distacco diventava troppo lungo, il divario non poteva più essere colmato. Le balie stavano lontane lunghi anni, tornando al paese il tempo necessario per procreare quei figli che permettevano loro di continuare a lavorare; la comunicazione con chi era rimasto diventava impossibile. Quando non erano più in condizioni di riprodursi, rimanevano presso la famiglia di adozione come bambinaie o governanti, anche senza un bisogno economico reale, pur di conservare un’autonomia e un certo rispetto tanto duramente conquistato e pagato, per non tornare ad un destino di subordinazione e di isolamento già segnato dall’uso e dalle leggi non scritte della consuetudine. Le donne delle campagne hanno cominciato ad andarsene, fisicamente o con la testa, nel desiderio, nel sogno, molto prima della fuga di trent’anni fa, documentata dai sociologi e sancita dai rapporti demografici allarmati dal calo della popolazione.

In questo senso si può dire che nel mondo rurale, forse molto più che e in città, convivessero due società e due culture distinte, che comunicavano ben poco fra loro. Anche perché, specialmente dal secolo scorso in poi, sempre più gli uomini hanno cominciato ad emigrare per lunghi periodi, in maniera massiccia. Le donne si sono trovate da sole, totalmente, senza più nessun aiuto, a far funzionare un sistema economico complesso, sempre più insufficiente a soddisfare i loro bisogni sia materiali che spirituali. Allora hanno scelto di andarsene.

Quando si decide di andare via, la decisione non parte mai da motivazioni meramente economiche: a parità di condizioni di vita, alcune popolazioni hanno scelto l’emigrazione, mentre altre si sono fermate. Per esempio, se si esamina la qualità dell’esistenza delle popolazioni urbane alla fine del secolo scorso in Italia, non si può certo dire che fosse migliore di quella dei paesi di montagna. Anzi, spesso possiamo affermare che i cittadini vivevano peggio. Ma perlomeno, potevano sperare (pagandola a prezzo di duri sacrifici e immaginandola più che raggiungendola davvero) in una qualche forma di vita migliore, di elevazione sociale, per sé o per i propri figli. Tanto è vero che l’emigrazione dai centri urbani è stata limitata, nella consistenza e nel tempo. La montagna invece non poteva, in nessun modo, far pensare ad un futuro migliore. E se questo era vero per gli uomini, figuriamoci per donne, incapaci, fra l’altro, di opporsi apertamente ad una civiltà che le opprimeva con condizionamenti culturali e religiosi impossibili da superare, se non rompendo dolorosamente con le famiglie e con le comunità. Le donne hanno risposto ad una repressione di secoli con la fuga: dal prete, dal paese, dai padri, dai fratelli, dai mariti.

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Le Locle,1962: lavoratrici alla Tissot; tra loro anche donne italiane

Oggi come oggi, in gran parte dei paesi dell’arco alpino, esiste un importante divario fra i sessi in età fertile: senza mettere in atto nessuna protesta femminista (lo impedisce una cultura in cui prendere la parola pubblicamente è ancora molto difficile), dagli anni ’60 in poi le ragazze, una volta raggiunto il diploma di terza media o di maturità, se ne sono andate. I loro uomini sono rimasti da soli: hanno tentato di ricorrere all’importazione delle mogli, prima dal Meridione, poi dall’Est, infine anche dal Sud America, ma il problema non si è risolto, e la differenza fra maschi e femmine fra i 20 e i 50 anni raggiunge, in alcuni casi, il rapporto 7:3.

Di conseguenza, molte valli si sono spopolate: le donne erano l’elemento cardine non solo dell’economia, ma anche di quello che sta dietro ad un sistema economico, i suoi valori morali e civili. Hanno piantato i loro uomini e sono andate a lavorare in città, oppure sono rimaste nubili, quelle sposate non hanno voluto fare figli. Quale rifiuto poteva essere più radicale?
Non solo, in alcuni luoghi, per esempio nei paesi dell’Est europeo, o dell’America latina (paese a prevalente emigrazione femminile) il processo è ancora in corso: nel senso che l’abbandono, il rifiuto di sposare un contadino, o, nel caso del sud America, ad adattarsi al rapporto machista fra i sessi, anche in contesto urbano, sono oggi all’origine di movimenti migratori femminili verso le città, capitali nazionali, o addirittura estere2.

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1 - Per una trattazione ampia del problema dello spopolamento di genere dell’arco alpino, vedi Michela Zucca, Le Alpi. La gente, Centro di ecologia alpina, Trento, 2007 oppure www.michelazucca.net
2 - Per una trattazione dettagliata sulle motivazioni di genere alla base dell’immigrazione dal Sud America, confronta la ricerca condotta per la Regione Lombardia: Michela Zucca, Storie di vita: immigrazione a Milano, Materiali /Cultura popolare su www.michelazucca.net

 


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