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Contro un muro di chiacchiere
Un silenzio loquace che insegna il vero
Foto: Fondazione Adriano Olivetti
Noi sogniamo il silenzio: «Il mondo moderno ha chiuso l’uomo negli uffici e nelle fabbriche, tra l’asfalto delle strade e il disordinato intrecciarsi delle macchine, come in una prigione ostile e assordante dalla quale bisogna, presto o tardi, evadere.» Adriano Olivetti
Una domanda sorge spontanea alla mia coscienza: che senso ha proporre oggi, in un'epoca tutta protesa alla comunicazione verbale, tra l’altro con le derive aggressive che tutti conosciamo, proposte e percorsi - e ne vengono attivati molti, soprattutto di tipo meditativo nelle versioni orientali od occidentali -, basati fondamentalmente sul silenzio? Ricordo, a questo proposito, che nel 2005 è uscito il film-documentario Il grande silenzio di Philip Gröning, nel quale per tre ore vengono riprese le pratiche quotidiane dei monaci certosini che vivono nel completo silenzio.
È innegabile l’imbarazzo che queste esperienze suscitano in chi le fa, soprattutto all’inizio, anche perché il silenzio viene prevalentemente associato a momenti di tristezza; non si sa cosa pensare, come comportarsi, come relazionarsi con gli altri… Se perseguiti con costanza, però, questi momenti ritengo possano procurare all’uomo effetti molto benefici e rigeneratori. In che senso?
Si conosce bene il proverbio “Il troppo stroppia”, e il suo insegnamento potrebbe rivelarsi produttivo per cercare una risposta alla domanda precedente. Il vero silenzio in realtà non è affatto silenzioso: privo del chiacchiericcio di una mente automatica fuori dal governo volontario di un io autocosciente, è paradossalmente loquace, di una loquacità, però, che insegna il vero. La sua è un’apertura al sempre rinnovellato e presente Logos – o campo akashico della tradizione vedica o mondo delle idee di Platone o campo unificato della quantistica che dir si voglia –, che può essere caratterizzato anche come attenzione concentrata non più sulla memoria né sulla progettualità soggettive, personali, ma sul Sé al contempo universale, individuale e trans-temporale…
Restituire con le parole una qualsiasi esperienza, si sa, è impossibile o solo molto parzialmente possibile. Ci si capisce meglio e integralmente quando le parole comunicano un’esperienza comune, altrimenti, senza contenuti percettivi di supporto, facilmente si teorizza a vuoto.
Soltanto diventando poeti – come, ad esempio, insegna questa breve composizione: “un muro di chiacchiere vane: politiche, culturali, religiose, tenta di seppellirci. Ma il suono sottile di un canto sgretola le mura di Gerico: e nasce l'uomo” – si può restituire al silenzio il suo valore costitutivo e, di primo acchito, ciò può sembrare un paradosso. Il silenzio, si dirà, non può esser detto perché in tal modo esce da se stesso per entrare nel suo contrario. Eccolo il paradosso! Possiamo, però, cambiare prospettiva e considerare il silenzio come la conditio sine qua non per far emergere ciò che di più autentico in noi vuole manifestarsi, ma che nello stato ordinario della nostra coscienza, tutta protesa verso l’esterno, non trova spazio sufficiente. Quindi: silenzio come condizione fondamentale all’emersione di contenuti nascosti e imprevedibili o, si potrebbe anche dire, come apertura al nuovo, all’inaspettato, all’inedito.
La condizione di un silenzio voluto, ricercato, ritengo ponga fortemente il senso e il valore della parola, altrimenti vissuta in sembianze anemiche, il cui peso e spessore lo troviamo, ad esempio, restituito paradigmaticamente nelle tribune elettorali o nei talk show o in quant’altro si trova nei “contenitori” disposti all’uopo, oppure ancora negli scambi quotidiani puramente utilitaristici.
Tutto qui il valore della parola umana? Sembra che proprio oggi non si possa sfuggire dal confrontarsi in maniera approfondita su questo argomento.
Chiostro dell'abbazia di Fontenay
Si può riscontrare, tra l’altro, una sintonia di vedute sul tema del silenzio che sembra superare le categorie di spazio e tempo. Ad esempio, nel testo taoista Zhuang-zi, del IV secolo, si legge: “pratica il distacco, concentrati nel silenzio… allora gli uomini saranno in pace” che si sposa perfettamente con: “bisognerebbe avere cura di lasciarsi educare al silenzio dal creato, dal cosmo… Il silenzio è bellezza, pace” dell’abbadessa Cànopi, scritte in un suo libro recente intitolato, appunto, Silenzio. Provando ancora in questo azzardo dei parallelismi, tra: “le parole sono solo dei contenitori: il contenuto è il silenzio" del mistico Osho e: “con l'amore la vostra voce interiore troverà una lingua che crescerà come un muto candido giglio nel cuore” del poeta J. Rumi del XIII secolo, si può trovare una profonda consonanza.
Alcune preziose osservazioni le ho trovate anche nel libro Il dono del silenzio di Thich Nhat Hanh, monaco buddhista vietnamita che dal 1982 vive in Francia, ad esempio quando scrive che praticando il nobile silenzio “sei davvero libero, libero dai rimpianti e dalla sofferenza riguardanti il passato, libero dalla paura e dall’incertezza per il futuro, libero da ogni genere di chiacchiericcio mentale”.
Se ne potrebbero trovare molte altre di queste intuizioni presenti in tutte le tradizioni culturali e in ogni tempo, a testimonianza di quanto sia grande il valore euristico del silenzio, anche e soprattutto nella nostra contemporaneità, satolla di parole vuote, nella quale potrebbe costituire un elemento chiave a supporto del cambiamento antropologico che sembra essere il tratto così evidente del nostro tempo.