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Il Re della Alpi
Walter Bonatti
di Franco Ferramini | PRIMA PARTE
Walter Bonatti. Foto © archivio Mountain Equipe
C’è una pratica sportiva nella quale il sogno assume una dimensione preponderante, spesso diventa quasi un’ossessione.
Dove sovente la mente sconfina tra la necessaria lucidità e la stanchezza infinita del corpo, si combatte con se stessi e con le proprie decisive scelte, in gioco ci può essere la vita stessa. Qui il sogno si può spezzare, nel momento di una dolorosa ma salvifica rinuncia o, nella totale confusione mentale, nell’inevitabile morte in completa solitudine di chi è troppo distante dal resto del mondo. Questo sport è l’alpinismo, un’attività per romantici con i piedi però ben piantati per terra, o meglio, sospesi su una parete di roccia. Per praticarlo è necessario un fisico elastico, reattivo, quasi da acrobata del circo; bisogna avere muscoli tonici, è vero, ma a nulla questi servirebbero se fossero parte di un corpo legnoso e solamente forte.
Il corpo dell’alpinista deve essere forte e leggero, per permettere una vita in salita verticale, una posizione non esattamente naturale per l’essere umano. Tutto ciò per quella che per qualcuno può essere una pazza concezione di un’attività sportiva, e in parte lo è, che richiede però mente sveglia e lucida per la continua ricerca di 'soluzioni a problemi', così vengono matematicamente definiti i passaggi più o meno difficoltosi nella ricerca di sempre nuove vie per arrivare in vetta. Una prerogativa deve necessariamente però risiedere nella mente di chi pratica l’alpinismo: lo spirito di avventura. Uno scalatore italiano ha rappresentato la sintesi nella perfezione di tutte queste qualità, ma soprattutto è stato un uomo vero, con tutte le sue grandezze e fragilità, così come deve essere un grande uomo: Walter Bonatti.
K2 - Bonatti contro tutti (RaiPlay)
Scrivere di Bonatti nelle poche righe di un articolo è un’impresa non facile: rendere in breve la grandezza di quest’uomo forse non gli rende giustizia, ma può invogliare qualcuno che lo conosce poco ad approfondire la sua figura; ci proverò. Walter Bonatti nacque a Bergamo il 22 giugno del 1935 e morì a Roma il 13 settembre del 2011. Iniziò la sua attività sportiva con la ginnastica, nella società monzese Forti e Liberi. Faceva l’operaio alla Falck e doveva coltivare la sua passione per la montagna nei ritagli di tempo, magari la domenica dopo il turno del sabato notte. Presto si mostrarono le doti innate di arrampicatore di Walter, e si diffuse piuttosto velocemente la fama di alpinista di quel ragazzo lombardo, nato a Bergamo ma cresciuto in riva al Po, che attraversava già da ragazzo a nuoto da una riva all’altra, come scuola di avventura. La sfida 'in' natura, mai 'alla' natura, come costante per tutta la sua vita.
Bonatti affrontò le prime montagne nel lecchese e in Valmasino, una scuola di arrampicata 'gratis', come si usava allora, mostrando doti naturali eccezionali che lo portarono alla prima grande impresa nel luglio 1951, la scalata del Grand Capucine, uno splendido obelisco del Monte Bianco mai scalato prima, tentativo due volte fallito ma alla terza conquistato insieme al suo amico Luciano Ghigo. Poi il servizio di leva e la chiamata al sesto reggimento alpini, che gli permisero di partecipare a numerosi corsi e di affinare sempre più la propria tecnica di scalata.
Nella notte tra il 30 e il 31 luglio 1954 Walter rischiò decisamente di morire per colpa di altri. Lui ormai era un giovane alpinista di 24 anni, già affermato a livello mondiale per le sue imprese. Per questo era stato scelto per quella che veramente si può definire una «scalata di Stato», un’impresa alpinistica nella quale le Istituzioni del Paese investirono soldi, uomini e mezzi in quantità notevoli, la conquista del K2. Furono scelti tredici alpinisti con capo spedizione Ardito Desio, che impostò l’organizzazione dell’evento in modo militaresco. Da quell’impresa furono esclusi grandi alpinisti italiani quali Riccardo Cassin, Cesare Maestri e Gigi Panei, con la scusa di referti medici fasulli che ne attestavano la non idoneità: la motivazione vera fu eliminare dalla spedizione caratteri forti che avrebbero potuto 'piantare grane' al capo indiscusso, l’autoritario Ardito Desio. Per le istituzioni comunque non si poteva fallire, era diventata una vera e propria questione di Stato.
Walter Bonatti sul K2, 1954 © zvg
Quel giorno accadde un fatto che segnò la vita di Walter quasi fino alla fine; rischiò di morire per colpa di due compagni di cordata, che arrivarono in vetta grazie al supporto fondamentale suo e dello sherpa Amir Mahdi, anche lui messo in pericolo di vita da quelli che poi si accollarono l’esclusivo merito dell’impresa, Achille Compagnoni e Lino Lacedelli. Accadde questo: fu deciso da Desio che Compagnoni e Lacedelli sarebbero stati i due che dei dodici alpinisti sopravvissuti (Mario Puchoz morì nell’impresa per edema polmonare) avrebbero avuto l’onere, ma soprattutto l’onore, di arrivare in vetta. La sera del 30 luglio 1954 Bonatti e l’hunza Mahdi arrivarono in un punto precedentemente concordato con Compagnoni e Lacedelli per lasciare una riserva di bombole d’ossigeno, ad una quota di circa 8100 metri; i due sotto non trovarono però quelli sopra, che erano chiusi in tenda in un campo più in alto del luogo prestabilito. Tra i quattro si tenne un drammatico colloquio a voce, a distanza, con visibilità quasi nulla, nelle condizioni atmosferiche di una notte incipiente a quelle quote. Bonatti disse che non potevano tornare indietro né andare avanti, per tutta risposta Compagnoni urlò di lasciare lì le bombole che il mattino dopo lui e il compagno sarebbero venuti a prendersele per affrontare l’ultimo tratto prima della vetta, rientrando in tenda e lasciando praticamente Walter e Amir al proprio destino.
Fu una notte terribile, orrenda: Bonatti e Mahdi furono costretti a bivaccare a oltre 8100 metri, senza tenda e senza neanche un sacco a pelo, in condizioni pericolosissime. Fu solo grazie al suo fisico giovane ed eccezionale e alla sua testa che Walter riuscì a sopravvivere. A lui toccò anche tentare di calmare Mahdi, che sembrava impazzito e voleva tentare a tutti i costi di tornare alla salvezza del campo sottostante in piena notte, un vero suicidio in quelle condizioni. Si salvarono per miracolo, Compagnoni e Lacedelli furono i conquistatori della vetta e dissero che le bombole che andarono a recuperare erano vuote e che riuscirono nell’impresa senza ossigeno, perché Bonatti e Mahdi le avevano utilizzate fino in fondo. Questa fu anche la versione ufficiale del capo spedizione Ardito Desio. Furono menzogne che segnarono profondamente il nostro alpinista: ci vollero più di cinquant’anni perché nel 1994 il CAI e nel 2004 la Società Geografica Italiana ristabilissero la verità, riabilitando ufficialmente la figura di Walter Bonatti.
Dopo quest’esperienza Walter si perse, non era più lui, qualcosa si era rotto definitivamente nel suo approccio fino ad allora fiducioso con la vita e con gli uomini. Per riconciliarsi con il mondo e riassettarsi nel rapporto con i propri simili aveva bisogno di fare qualcosa di mai tentato prima, qualcosa di assolutamente eccezionale, per provare a se stesso e agli altri di essere ancora uomo. Il 22 agosto 1955 il nostro arrivò in vetta al Petit Dru, 3733 mt, nel massiccio del Monte Bianco; riuscì in quella che per tutti all’epoca era letteralmente una sfida all’impossibile. Il primo tentativo fu del 1953, l’anno prima della vicenda del K2, con Carlo Mauri, impresa non andata a buon fine. Ci riprovò con altri tre nel luglio 1953, con lo stesso Mauri, Andrea Oggioni e Josve Aiazzi, ma il maltempo vinse ancora sul cimento alla vetta.
Sul Petit Dru dopo 6 giorni in solitaria
Ma la ferita nell’animo del K2 bruciava fortissima e Walter ci riprovò un mese dopo, in solitaria, per quello che descrisse nel suo libro «Le mie montagne» come una «folle idea generata dalla depressione morale». Per quattro giorni Bonatti salì da solo, si ferì, parlò con sé stesso e col suo sacco, accompagnato dal maltempo e dalla pericolosa solitudine. Il quinto giorno rimase bloccato in parete, non poteva più né andare su né tornare giù, pianse da solo per più di un’ora, pensò che la sua vita sarebbe finita lì, a venticinque anni, su quella parete. Poi, così come folle fu quella scalata, l’istinto di sopravvivenza e la forza della disperazione fecero notare all’alpinista delle piccole scaglie di roccia poco più su di quella muraglia sopra di lui totalmente liscia, preparò la corda come un lazo, e la lanciò su, per decine di volte, nel tentativo di fissarla a quelle piccole scaglie di roccia più sopra. Fino a che, ecco, la corda sembrò agganciarsi, poté tentare di tirarsi su, a sola forza di braccia dopo tutti quei giorni di fatiche appeso in parete. Lo sforzo fu improbo, e ancora una volta venne in soccorso di Bonatti il suo fisico eccezionale, su su per la corda fino alla possibilità di agganciarsi ad una scaglia con una mano, poi due, era fatta. Ancora strapiombi, fino alla vetta alle 16,37 del 22 agosto 1955, in quello che poi verrà battezzato per sempre il pilastro Bonatti.
Il riscaldamento globale nel 2005 fece crollare quel monumento di granito. Lo scioglimento del permafrost, il ghiaccio nelle rocce, distrusse la testimonianza fisica di quell’impresa e, chissà, anche un pezzo di cuore di Walter Bonatti, che all’epoca era ancora in vita. Nel dicembre del 1956 tentò con Silvano Gheser la via della Poire sul versante della Brenva sul Monte Bianco. I due incontrarono i due alpinisti francesi Jean Vincendon e Francoise Henry. Nel complesso un’impresa sfortunata che si concluse con la morte dei due alpinisti francesi e l’amputazione delle dita di mani e piedi per il compagno di cordata di Walter, unico illeso. Le sue scelte ponderate portarono a scampare da morte certa lui e Gheser.
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[sarà pubblicata il 26 agosto 2022]